“Il cielo stellato fa le fusa”, il Decamerone surreale di Chiara Francini
Chi ha letto i precedenti romanzi di Chiara Francini, brillante scrittrice oltre che attrice cinematografica e teatrale, accoglierà con piacere Il cielo stellato fa le fusa (Rizzoli, 2020), appena arrivato nelle librerie: non un vero e proprio romanzo, ma una storia che fa da cornice alla narrazione di altre storie, alla maniera di certi classici come Le mille e una notte e soprattutto il Decamerone, per restare nel mondo toscano dell’autrice.
Ci sono infatti otto giovani uomini e donne che, incontratisi in una sontuosa villa fiorentina per un convegno su “cibo e cultura”, per una non meglio precisata restrizione sono costretti a restarvi per un periodo più lungo del previsto, sotto la direzione dell’ineffabile governante Lauretta, e decidono di rompere la monotonia delle giornate raccontandosi delle storie, esattamente come nel capolavoro di Boccaccio.
Ci troviamo perciò a leggere delle storie diversissime tra loro per stile, ambientazioni e protagonisti, così come sono diversi per provenienza ed esperienze di vita i nove narratori, a cui si aggiunge anche il punto di vista molto particolare di Rollone il Vichingo, un gatto che è il vero signore della villa e che ci racconta gli umani secondo la sua personalissima visione del mondo.
Il cielo stellato fa le fusa è un libro molto divertente, ma che contiene anche storie interessanti e significative, sia tristi che allegre, che ricorda artisti dimenticati e che, soprattutto, riesce a descriverci un momento di reclusione forzata senza cadere negli infiniti stereotipi che si sono accumulati in troppe pagine già apparse a proposito della pandemia: ne abbiamo parlato con Chiara Francini in un incontro online.
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Come le è venuto in mente di costruire questa storia?
Stavo scrivendo un altro romanzo, poi è arrivata la mia agente letteraria a suggerirmi di ispirarmi in qualche modo al Decamerone, cosa che mi è piaciuta perché quando scrivi un romanzo puoi fare delle deviazioni e delle divagazioni, ma solo fino a un certo punto. La modalità di raccontare storie tramite narratori molto diversi tra loro mi ha invece dato la possibilità di inserire vicende particolari.
Il parallelismo tra la peste del Decameron e la pandemia che stiamo vivendo, è inevitabile.
Ho scritto il libro durante il primo lockdown, sicuramente influenzata del momento che stiamo vivendo, ma senza mai citarlo. L’epidemia è anche la mancanza di senno, la perdita totale delle regole che costituiscono e che rendono civile l’umanità. In questi casi la straordinarietà è la salute, non la malattia. Devo dire che mi incuriosisce il fatto che il libro esca proprio in concomitanza con questo secondo periodo di restrizioni. Solitamente i romanzi vengono scritti tempo prima rispetto alla data di pubblicazione e mi affascina molto la componente di attualità che trovo in questo caso.
Che ruolo ha l’ironia, così presente in questo libro, nella sua vita?
Dostoevskij diceva «La bellezza salverà il mondo», mentre io penso che saranno l’ironia e l’autoironia a salvarlo. L’ironia è un balsamo che trasforma le brutture e gli errori, è anche la capacità di vedere le cose da lontano e comprenderle nelle sue reali dimensioni, che ti fa comprendere tutte le imperfezioni.
È un libro appropriato per un momento in cui tutti sentiamo il bisogno di un po’ di leggerezza.
Leggerezza però non significa superficialità. Credo di aver inserito momenti di riflessione abbastanza importanti, ma volevo che alla fine di questo libro ci si potesse sentire bene, che si avvertisse un senso di accoglienza e di calore. Spero di esserci riuscita.
Come è stato costruito? Aveva una storia così complessa in mente fin dall’inizio?
No. Avevo idea di scrivere una specie di Decamerone e mi piaceva l’idea generale, ma quando ho iniziato a scrivere dovevo trovare una motivazione per riunire le persone, così mi è venuto in mente di farle partecipare a un convegno su “cibo e cultura”. Per me il cibo è fondamentale e il paradiso è vicino a una tavola imbandita dove conversare.
Le novelle sono venute in ordine sparso, a volte ne ho scritte tre insieme, altre volte sono tornata indietro a modificarle. Scrivendo vado sempre a istinto, senza schemi prestabiliti.
Il processo creativo mi deve dare gioia, perché penso che se mi rompo le scatole io a scrivere immagino che alla fine si annoi anche il lettore a leggermi.
Quanto si è divertita a giocare con il registro alto e il registro basso della lingua, utilizzando parole desuete della lingua italiana e termini tipici del dialetto toscano?
Quando scrivo vado molto a orecchio, nel senso che devo sentire bene quello che rileggo. La mia editor non era d’accordo sull’uso del gerundio “sbenedizionando” ma l’ho trovato in uno dei sonetti del Belli che mi leggeva mio padre …
E perché mostrare la prospettiva del gatto?
Naturalmente sono una grande amante dei gatti, che per me sono delle creature incredibili, eleganti e maestose quando ti guardano dall’alto pur stando più in basso di te. Mi piaceva l’idea di un gatto narratore, un po’ sarcastico, ma anche umanizzato, colto e ironico.
Ci sono state storie che voleva mettere nel libro e poi ha lasciato da parte, ha dovuto fare delle scelte o delle rinunce?
Quando mi piace una cosa la devo inserire per forza in quello che sto scrivendo e una mia caratteristica è la velocità nel creare collegamenti. L’unica cosa che non ho messo è un riferimento a un terzo personaggio nella storia dei due poeti dimenticati, che ho preferito lasciare da parte per non appesantire la novella.
Quanto conta nella scrittura l’esperienza come attrice?
Sicuramente conta molto nella scansione dei dialoghi: si rischia sempre di scrivere dialoghi banali o che si scostano dalla realtà, ma penso che in affetti fare l’attrice mi aiuti nello scriverli. La sinergia fra attrice e scrittrice per me conta tantissimo.
La poesia è molto presente in questo libro. Qual è il suo rapporto con la poesia, che oggi sembra essere stata messa un po’ da parte?
Per me la poesia è la forma d’arte suprema, scontorna la vita come le parole, è una magia. Credo sia giusto dare voce a degli artisti che sono in grado di illuminarti con poche righe, perciò cerco di portare un po’ della bellezza poetica in quello che scrivo.
Come definirebbe questo libro, se non lo vogliamo considerare un romanzo?
Un paniere pieno di delizie.
Il suo non è fiorentino ma italiano trecentesco. Si è magari riletta il Decamerone per rientrare nell’atmosfera e per recuperare qualche parola?
No, non ho riletto nulla perché quando scrivo non devo essere influenzata dalle letture.
Si sente più a suo agio nel mondo della scrittura o nel mondo della recitazione?
Nel mondo della scrittura e in quello della recitazione quando si parla di teatro. La scrittura mi permette di restituire tutti i miei colori, perché io sono una folle amante della vita, gioiosa, empatica e al tempo stesso malinconica, spesso silenziosa. Cinema e tv ti danno la possibilità di sporcare i personaggi con le tue tinte, ma non sono parole tue. Scrivere è un po’ come essere Dio, è essere libera.
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Che rapporto ha col pubblico da scrittrice e da attrice?
A me piace molto fare le presentazioni dal vivo, che mi permettono di ringraziare le persone che mi danno l’opportunità di scrivere. Cinema e televisione sono come delle telefonate d’amore, la scrittura e il teatro sono degli abbracci, perché hai un rapporto diretto con le persone. Attori e scrittori sono ugualmente egocentrici e vogliono essere amati. Il fatto che il pubblico mi dimostri il suo affetto mi fa sempre piacere.
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Per la prima foto, copyright: Taylor Wilcox su Unsplash.
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