Il cibo come metafora della vita. “Il banchetto di nozze e altri sapori” di Carmine Abate
Nella vita di ognuno di noi ci sono dei ritornelli fatti di momenti diventati abitudini, parole fattesi motti, oggetti-identità, “cose” che, pur senza volerlo consciamente, abbiamo innalzato allo status di costanti indelebili della nostra esistenza e che sono diventate parte integrante della nostra persona. Una volta inglobati, questi ritornelli ci diventano fondamentali, come l’ossigeno e il sangue.
Il ritornello di Carmine Abate è il cibo. Finché ha potuto, ha resistito alla tentazione di innalzargli un altare votivo ma giunto a un certo punto della sua crescita, dopo averne parlato e scritto («Corriere della Sera», «La Repubblica», «AD» e «La Cucina Italiana»), un profumo che non ricordava da tempo è sopraggiunto a solleticargli le narici e quando il palato è riuscito a gustarne di nuovo il sapore non ha esitato a imbastire la tavola per il banchetto che gli ronzava in testa da tutta la vita: Il banchetto di nozze e altri sapori.
Banchetto itinerante composto da più portate che si fa metafora della vita, con il menù a scandire i tempi e dare il ritmo della narrazione. Apre il libro un delizioso quanto sobrio antipasto che ci catapulta sulla sabbia fine di Punta Alice, circondati da gabbiani affamati, sulle labbra il fuoco della sardella piccante e nelle orecchie la voce della nonna con le sue storie di antenati e sbarchi. Un’istantanea congelata nei ricordi che, scopriremo, è stata la prima nota di quel ritornello da cui l’autore non si è mai liberato. Quanto basta per stuzzicare l’appetito e aspettare la portata successiva che si fa introdurre da una voce narrante durante un banchetto di nozze. «Partirono un giorno bello sereno come oggi ma lontano più di cinque secoli fa», è il cuoco d’Arbërìa a parlare, figura chiave come gli aiutanti magici delle fiabe, le cui ricette diventeranno anche il nostro ritornello, almeno per la durata della lettura.
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Se l’antipasto è servito a metterci l’acquolina in bocca, i Primi e altri sapori ci trasportano indietro nel tempo al fianco di un bambino alle prese con i piccoli problemi della crescita. Un’infanzia scandita dai rintocchi delle sedie trascinate sul pavimento per mettere le gambe sotto al tavolo e delle posate sul piatto che ci rimandano a un mondo fatto di semplici piaceri capaci di mettere la “cuntentizza” nel cuore. Assaggiamo le polpette della domenica il cui profumo è conosciuto in tutto il vicinato e intanto corriamo per i boschi della Calabria. Tra un boccone e l’altro impariamo qualche parola di dialetto e ci lasciamo contagiare dalla tristezza dell’autore per la lontananza del padre, germanese come molti, che trascorre gran parte dell’anno a costruire strade in Germania: «l’anno prossimo torno per sempre» è la promessa con cui si salutano e che ogni anno viene rinnovata. La malinconia però scompare presto se hai degli amici con cui rubare ciliegie e delle strane patate “saporitose” da scovare.
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Così si diventa grandi e il papà non si deve più aspettare ma si può raggiungere; allora seguiamo il protagonista, ormai sedicenne, in partenza per la Germania con una valigia piena di peperoncino e Anna Karenina sotto braccio. Così come l’infanzia, a un certo punto anche i primi finiscono e bisogna cedere il passo ai Secondi e altri sapori. Lontano dalla Calabria e dai suoi odori il cibo non smette di essere la bussola del protagonista che tra la Germania e il Trentino si fa adulto. Uomo nostalgico sempre in cerca dei profumi dell’infanzia, Carmine fatica a trovare un luogo in cui ripiantare quelle radici che ha sradicato dalla terra della sua infanzia e noi lo seguiamo nei suoi viaggi e nei suoi incontri in cui non mancano mai un buon pasto e un buon bicchiere di vino. «Da Rovereto a Fondo, da Folgaria a Tuenno, da Sarnonico a Taio, da Cles a Trento, da Coredo a Mattarello, da Besenello a Riva del Garda, ero sempre in movimento, gli occhi che si abbuffavano di bellezza».
La nostalgia però si insinua tra le portate e diventa un ingrediente costante, la narrazione si fa più matura, finalmente, e si percepiscono dei conflitti con il padre che avrebbe voluto che il figlio ritornasse a Casa. Non si rassegna a vederlo in Trentino, sposato, che rinuncia alle tredici cose buone del Natale per la polenta con ’nduja, un ibrido capace di mettere d’accordo Nord e Sud. Lo sappiamo tutti, un banchetto non può dirsi completo se non si arriva alla fine con la pancia piena e una gran voglia di dolce, così dopo aver seguito il protagonista tra i boschi calabresi, nel freddo della Germania e sui monti del Trentino, ritorniamo sulla spiaggia di Punta Alice a gustarci il sapore dolce di una nuova vita che nasce.
Il banchetto di nozze e altri sapori è una sorta di romanzo devozionale alla cucina italiana, e meridionale in particolare, un inno alla terra e alle tradizioni che fanno del nostro Paese il più sognato dagli chef, ma è anche il romanzo di formazione di un ragazzino cresciuto durante il periodo delle migrazioni a cui sono stati lasciati in eredità i sapori e le ricette di un’intera cultura.
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Il cibo è il filo conduttore di tutta la narrazione e in alcuni punti sembra quasi che il protagonista faccia un passo indietro sul palcoscenico per dare maggiore visibilità all’oggetto del suo amore, succede soprattutto quando la nostalgia si fa più intensa e allora occorre ritornare con precisione a certi odori e a certi gusti. La prima parte del libro è scritta in modo molto semplice e lineare, i periodi sono brevi e il linguaggio è infarcito di termini ed espressioni dialettali, tanto nei dialoghi quanto nelle descrizioni. Più matura è invece la seconda parte, quando anche il protagonista cresce e lo stile si fa leggermente più articolato. La narrazione procede per episodi seguendo il naturale scorrere del tempo e il ritmo, così come la divisione dei capitoli, è scandito dai momenti della tavola a cui sono legati importanti ricordi del protagonista. Carmine Abate ha imbandito un romanzo che, attraverso i sapori e le ricette, racconta una storia di cambiamenti e amori, tradizioni e adattamenti.
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