“Il capofamiglia”, un impietoso ritratto familiare tra patriarcato e menzogna
Il capofamiglia di Ivy Compton-Burnett, pubblicato in Italia da Fazi editore nella traduzione di Manuela Francescon, è la storia di Duncan Edgeworth, uomo dalla tempra spettacolare, quasi teatrale: marito di Ellen, donna remissiva e sottomessa al suo uomo, padre di Nance e Sybil, giovani donne dai caratteri opposti, zio di Grant, che Duncan ha benevolmente accolto come richiedevano le buone maniere dopo la dipartita dei genitori del ragazzo. Ma, al di là di ogni parentela che potrebbe definirlo, Duncan Edgeworth è un tiranno, un maschilista, un patriarca, un capofamiglia degno della categoria.
Le dinamiche familiari più semplici si susseguono nel libro a colpi di copione: il salotto degli Edgeworth ospita una casistica di figure dalla dubbia caratura morale, più attente a tessere trame che ad approfondire una discussione qualunque. Ben si adattano all’ambiente della famiglia, dove l’invidia e la noncuranza sono servite su tavole imbandite tutti i giorni.
Duncan si trova a gestire la sua famiglia, che disprezza, tra lutti, matrimoni, battesimi: eventi comuni ma che nel romanzo assumono sempre significati doppi, meschini. I rapporti sono costantemente tesi fra tutti i componenti del nucleo famigliare e si potrebbero riassumere in chi – come Grant – sfida apertamente la figura di potere più per spirito di ribellione che per vera insubordinazione e in chi – come Sybil – dimostra una devozione nei confronti del proprio padre per paura delle conseguenze.
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Dalle prime pagine de Il capofamiglia emerge subito un aspetto che ne rappresenta il tratto più distintivo. Un ruolo fondamentale è affidato alle parole, che sono usate da tutti i personaggi come armi per ferire, dissimulare, mascherare sentimenti, per gestire insomma la maggior parte delle situazioni che si trovano davanti. Il dialogo è lo strumento privilegiato dalla narratrice, che lascia agli scambi continui tra le persone il compito di narrare le vicende del romanzo. Non ricorre quasi mai a particolari momenti descrittivi, ma più che altro si diverte a dilettare il lettore con una sorta di battaglia linguistica, in cui il gioco delle parti è mutevole ed è affidato appunto al potere della lingua e alle sue molteplici sfaccettature.
Se all’inizio può risultare spiazzante, sia per la pluralità di voci che hanno modo di esprimere la propria opinione, sia per la totale mancanza di supporto narrativo che accompagni la narrazione, subito dopo l’atteggiamento generale del lettore è mutato per entrare all’interno di questo salotto ed assistere alla commedia umana qui magistralmente rappresentata.
Unica pecca, più per pignoleria di dettagli che per demerito del romanzo, è una generale tendenza a salti temporali non meglio specificati. Mancando appunto la figura esterna del narratore che lascia la parola alle sue pedine-personaggi senza mai intervenire con nessun tipo di preambolo, la conseguenza è che il lettore si ritrova da un rigo all’altro davanti a eventi già compiuti, di cui è costretto a prendere atto solo dopo che si sono verificati. Ricorda, ma solo in questo, un aspetto che era stato tipico di Henry James e, in particolare, di Ritratto di signora, quando si fossilizzava su minuzie lasciando l’evento fondamentale della storia da parte. Il lettore in entrambi i casi è messo a conoscenza delle cose quando esse sono avvenute, senza esserne preparato.
Anche ne Il capofamiglia i principali fatti che coinvolgono i protagonisti non vengono mai raccontati nel loro corso, ma solo dopo. Prenderne coscienza implica un ulteriore sforzo nell’interpretazione della storia: in definitiva, il lettore non può mai mollare la presa.
Un altro aspetto molto interessante è la capacità di descrivere in maniera eccellente lo spaccato di una società che per secoli ha avuto il sopravvento e della quale si rinvengono, purtroppo ancora oggi, alcuni retaggi. Mi riferisco allo scandalo, che si presenta in forme varie, talvolta come conseguenza di un tradimento tra coniugi, talvolta come risultato delle menzogne. Uno scandalo ha il potere di compromettere il buon nome di una famiglia e per questo va taciuto, sotterrato. Se l’atteggiamento indicato da una famiglia perbene è quello di glissare per evitare che tutta la comunità sia messa al corrente dello scandalo, l’autrice qui scompiglia le carte alimentando lo scandalo con le chiacchiere. Come soffiare sul fuoco.
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Ci troviamo di fronte al ritratto di una società incurante dei legami ma attenta solo alla forma: quanto più si tenta di occultare il cadavere dello scandalo, tanto più saranno le parole a sottolinearne la gravità in maniera impietosa. Lingue taglienti che non si esimono dall’esprimere un giudizio, ma anzi rimarcano il tutto.
La famiglia e il suo capofamiglia si ritrovano così esposti alla pubblica gogna, che mantiene tuttavia uno stile rispettabile anche nella critica più aspra.
Per la prima foto, copyright: Derek Owens su Unsplash.
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