“Il canto del pane” di Daniel Varujan: una musica ipnotica e intossicante
È una poesia che va centellinata, quella di Daniel Varujan; lirica dopo lirica, Il canto del pane andrebbe sgranato come un rosario, apprezzandone con lentezza la sua immediata semplicità e musicalità quanto la pregevole tessitura. Poeta poco conosciuto in Italia, al di fuori della cerchia ristretta degli studiosi di letteratura armena, è stato proposto e divulgato presso un pubblico ampio ed eterogeneo di lettori, a partire dal 1992, attraverso sette edizioni a stampa, per i tipi di Guerini e associati, ultima delle quali è uscita in libreria lo scorso aprile.
Antonia Arslan, che ha curato e tradotto il testo con Chiara Haïganush Megighian, racconta nella prefazione di essersi innamorata di Varujan leggendo alcune delle sue liriche in francese e ascoltandole, in seguito, recitate in armeno. «Mi pareva di sentire come una musica ipnotica e intossicante provenire da quei versi, di capire finalmente col cuore e con la mente la forza struggente della mia eredità di sangue, e il pianto di un intero popolo che muore». Il riferimento è all’eccidio del popolo armeno, sepolto e sprofondato nell’oblio per più di mezzo secolo. Il canto del pane è perciò una raccolta incompiuta di 29 poesie che arrivano al lettore direttamente dal “regno dei morti”; l’intensità e la melodia dei suoi versi riverberano nel lettore italiano un’atmosfera esotica e la vicenda biografica del poeta si ammanta di un’aura romantica, anche in virtù del suo sfortunato destino, della tragedia del popolo di cui è stato cantore e delle circostanze quasi “miracolose” del ritrovamento della silloge, ricomparsa fortunosamente negli archivi della censura della polizia turca e pubblicata postuma a Costantinopoli, nel 1921, quando Varujan era ormai solo polvere nel deserto dell’Anatolia.
Daniel Varujan ha la peculiarità, come rileva la Arslan, di fondere in un corpus unico di opere diversi orizzonti poetici, in una sintesi molto personale che su una tavolozza di timbri e tonalità di matrice orientale si innesta felicemente – per conoscenza diretta e formazione – sul solco della tradizione della contemporanea poesia occidentale. Tra il 1896 e il 1898 Varujan studia nel collegio armeno di Costantinopoli e in seguito alla scuola media di Kadiköy. I suoi maestri intuiscono in lui un ingegno eccezionale e lo spediscono a studiare a Venezia, presso il collegio Moorat-Raphael dei padri mechitaristi armeni. È in questo contesto che Varujan conosce la lirica classica, legge D’Annunzio, Carducci e in particolare Leopardi. Da cultori della poesia delle patrie lettere non possiamo rimanere impassibili, sulla scorta di queste influenze, di fronte ai versi del poeta armeno: «Dolce notte estiva / La testa abbandonata sull’aratro / L’anima sacra del contadino riposa sull’aia. / Nuota il grande silenzio tra le stelle divenute un mare. / L’infinito con diecimila occhi ammiccanti mi chiama. / […] È squisito per il mio spirito tuffarsi nell’onda luminosa di azzurro, / naufragare – se è necessario – nei fuochi celesti; […]» (Notte sull’aia).
Dal 1906 al 1909, sempre per l’intervento dei padri mechitaristi, Varujan ha modo di frequentare l’università di Gand, nelle Fiandre. Qui scopre i simbolisti francesi e l’influenza del simbolismo europeo si fa sentire molto ne Il canto del pane: il dettato poetico restituisce un campionario di visioni concrete e reali della materia indagata e rappresentata (il mondo rurale, il ciclo delle stagioni, i rituali di una società contadina) ma incastonate in un mosaico mobile (i cui tasselli, talvolta, si ripetono o risultano intercambiabili), in una rete di vibrazioni risonanti in una dimensione mitica e simbolica, dove tutto si dissolve nell’atemporalità e nella incessante trasformazione del cosmo.
Il punto di partenza, nella lettura di Varujan, è quello della riscoperta delle sue radici orientali, per sua espressa volontà. In seguito a una forte crisi esistenziale, dopo la parentesi europea, il poeta tornerà in Turchia, per riscoprire la sua patria un momento prima che questa venga definitivamente negata e cancellata brutalmente dalla Storia. Il rapporto con la terra dei padri è viscerale e il canto ha come oggetto il “pane sacro”, elemento vitale che la terra produce e di cui gli uomini si nutrono per rimanere in vita. C’è una forza primigenia e selvaggia insita nelle immagini di queste poesie che celebrano un mondo di azioni usuali e ripetitive, di serena laboriosità e compostezza, di tranquilla e placida fatica. Non ho usato casualmente la metafora dello sgranare il rosario (per il cattolico) in apertura. C’è una propensione liturgica nella poesia e nel canto orientali, tipica nella cultura bizantina, dove gli oggetti entrano nel piano della realtà nel momento in cui vengono nominati.
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I colori utilizzati per descrivere il mondo delle origini hanno in Varujan le tonalità prive di mezzi toni (mai sfumate o slavate nell’acquerello) del rosso (come nella poesia Papaveri), l’azzurro del cielo, il giallo delle distese di grano («I miei buoi sono biondi, hanno le fronti di luce che ho adornato con un amuleto blu / […]» in Il giogo) ma soprattutto l’oro, colore ricorrente e disseminato in gran parte della raccolta, con le sue più diverse declinazioni (l’aggettivo dorato/a, per esempio). In L’aratura «Dal dorso della montagna spunta il sole neghittoso / e deposita un bacio dorato sulla fronte del contadino […]»; in La semina «È il seminatore. – si erge possente / tra i raggi dorati del tramonto […] Colma i solchi, fendi le fertili pianure, / luci d’oro zampillino dal grembo della terra […]»; in Campo maturo, delle sei strofe che compongono la lirica cinque iniziano col verso: «La mia terra è dorata» e nella sesta il primo verso recita «Dormi terra dorata».
La reiterazione, il continuo ricorso a termini-chiave nel componimento poetico è un espediente diffuso nella poesia orientale e ha valenza di scansione ritmica; Varujan fa sua questa lezione e in altri casi enfatizza il verso con l’intento di trarne effetti espressivi: «[…] La fonte la riempie con il suo canto cristallino / la stella con le sue lacrime cristalline […]» (L’abbeveratoio). La cura espressiva si nota anche nel ricorso alle onomatopee (es. nel ritornello del Canto della trebbia il suono “hir hir” vuole rendere in armeno il suono della trebbiatrice; ma troviamo anche continue riprese di versi o parti di versi, adatti a imprimersi, a esser memorizzati come se si trattasse di una canzone. A livello linguistico Varujan è personale anche nell’utilizzo, a volte imprevisto per il lettore, di una terminologia “forte”, icastica, in contrasto con la tradizione occidentale che si vorrebbe più incline all’eufemismo. Ma non c’è arcadia in Varujan, e le cose, come annota la Arslan, vengono chiamate col loro nome: “utero” e non “ventre”; “mammelle” e non “seni” della madre terra.
La lezione simbolista si nota di più nella strutturazione dell’operache, a prima vista, appare regolare nell’ordinamento delle strofe, pure se i versi sono di lunghezza variabile. Va comunque rilevato, con l’ausilio delle preziose note della curatrice, che in tutto Il canto del pane sono solo tre le poesie di sei strofe: Campo maturo, Mezzogiorno e Il vaglio. Accostate, sembrano completarsi e illuminarsi a vicenda, configurando una sorta di progressiva ascesi spirituale. Tre poesie di sei strofe; la Trinità che si raddoppia in un sei mistico, come i gradini della scala di Giacobbe o i sei giorni della creazione. Il dato più immediato e quotidiano viene immerso in un’atmosfera onirica, dove scaturisce la “percezione” di Dio nelle sue creature terrene. Se in Campo maturo la potenza dello Spirito è evocata dalla fiamma, è in Mezzogiorno che la dimensione terrena incontra il divino, dove cielo e terra si fondono, fino al lento illanguidire e spegnersi (ma tutto è metamorfico, è una stasi apparente, solo una breve sosta) ne Il vaglio, il canto della sera.
La violenza, le forze del Male che tramano e dispiegano i loro disegni oscuri sul mondo mobile e armonioso della vita dei campi, paiono essere bandite da questa silloge. La morte in Varujan non è fine, ma trasformazione; le liriche sono permeate di luce e anche il verso finale dispiega un raggio di luce abbacinante, quasi dimentico di un vago senso di presagio, di una minaccia incombente che avvertiamo in più momenti nel corso della lettura. Così ne Il mulino: «Ehi mulino, gira gira / accucciato sulla terra verde della valle /grida il tuo canto profondo / verso la luna dal cerchio d’argento. / Tu sei casetta vacillante […] E i carri cantando, lasciato l’oro, / ritorneranno colmi di luce.». Si sarà sentito vacillante, il poeta, quando è stato sottratto al suo magistero e ai suoi affetti per essere deportato. Si sarà accucciato anche lui, come il suo mulino, per favorire l’abbraccio della terra che amava, mentre veniva brutalmente mutilato e pugnalato a morte. La sua morte non è stata la quieta morte-e-rinascita di quelle golden plains, di quelle pianure armene che tanto ha celebrato, ma Il canto del pane sacro è stato comunque “gridato” nel mondo, e con lui quello del suo cantore: Daniel Varujan.
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