Il bullismo a scuola e le sue conseguenze nel nuovo romanzo di Giovanni Floris
Parlare di bullismo a scuola è oggi di grandissima attualità, tra trasmissioni televisive e dibattiti fortunatamente l’argomento è assurto al centro dell’interesse nazionale. Ed è anche il tema portante di Quella notte sono io, il nuovo romanzo di Giovanni Floris edito da Rizzoli. Il giornalista e conduttore di Dimartedì su La7 e, prima, di Ballarò su Rai3, ci narra la vicenda di 5 compagni di scuola, riuniti in un casale a vent’anni da un incidente fatale avvenuto dopo una gita. L’argomento intorno al quale si sviluppa il romanzo è il bullismo a scuola, nella società e più in generale la prevaricazione del “branco”, più forte, sull’individuo più fragile e indifeso, ma è anche, in sostanza, un apologo sul senso di responsabilità e un appello a rendersi consapevoli delle conseguenze generate dai propri pensieri e azioni. Alcune verità sommerse torneranno a galla, per un appuntamento col passato che non è più possibile evitare. Ne parliamo con l’autore per i lettori di «Sul Romanzo».
Il leit-motiv del romanzo è ben radicato nell’attualità: quanto è importante, anche tra le righe, parlare di bullismo a scuola e della violenza, sempre più presente fra i ragazzi?
Importantissimo, sogno che a leggere il mio libro siano proprio gli studenti, perché è nella scuola che ci si forma, è nella scuola che si acquisiscono le categorie mentali che poi ci accompagneranno per tutta la vita. Questo libro affronta principalmente il tema del bullismo ma poi amplia il discorso a vari aspetti che riguardano la nostra vita nella sua interezza, se vogliamo.
Diciamolo a beneficio dei lettori: sono cinque gli ex-compagni di classe che non si vedono dal periodo del liceo, convocati durante un week end in un casale di campagna in Toscana: Silvia (la bellezza fatale), Lucio (l’arroganza pseudo-intellettuale), Germano (la forza bruta e ottusa), Margherita (il talento e la brillantezza) e Stefano (la voce narrante del racconto). Il lettore assiste allo sgretolamento di tutti i modi di essere di ciascun personaggio, a opera della logica. In effetti è un romanzo composto, per lo più, di dialoghi. Quanto è importante per lei indurci a riflettere?
Per me il tema portante del libro dovrebbe indurci a ponderare, ad analizzare le conseguenze delle nostre azioni e non compierle con superficialità, perdendo il senso del loro significato più profondo. La logica sarebbe auspicabile trovarla sempre in quel che si fa o si dice, anche nei momenti di grande emozione; giudico molto importante essere sempre presenti a sé stessi. Stefano è la memoria storica del gruppo ma anche l’incapacità di avere un’identità ben definita, il doversi sempre conformare al contesto. Stefano è la figura che non è presente a sé stessa, agisce in base a quel che crede vada bene in quel dato momento. Il crescere con questa “notte” sulle spalle lo aiuterà a capire l’importanza di esser sempre consapevoli rispetto ai propri pensieri e azioni.
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A un certo punto del romanzo Stefano chiosa: «Il tempo della formazione ha un peso specifico superiore al resto della vita». È d’accordo con il suo personaggio riguardo a questa constatazione?
Moltissimo. Gli anni della formazione sono decisivi; per come la intendo io formazione vuol dire la scuola, dalle elementari alle medie, fino al liceo. È la scuola a fornire l’impronta, il tratto di quel che poi un individuo sarà nella vita. C’è chi cercherà di allontanarsi da quel che era, svicolerà dall’esser fedele a quel ch’è stato ma non si può non riconoscere che il tempo della formazione è determinante nel forgiare la personalità.
Il suo libro, come sottolinea nella postfazione, non è imperniato sul senso di colpa ma sul senso di responsabilità. Verso la fine della storia viene offerto a uno dei personaggi un exemplum in negativo delle conseguenze che possono avere alcuni gesti avventati. La considerazione amara è che tutto ciò potrebbe non essere abbastanza. Quali sono, secondo lei, le strategie più adatte a sensibilizzare sui rischi derivanti dalle molteplici forme della prevaricazione contemporanea?
Ho una grande fiducia nei professori, gli eroi del nostro tempo, gli artefici basilari della nostra formazione, legati al modello della cultura, dell’approfondimento e della fatica. Mi dispiace che oggi non vengano loro riconosciuti, sempre più spesso, né il valore né le risorse. Comunque vedere che non mollano – nonostante tutto – nell’odierno panorama socioculturale mi fa ben sperare nel ruolo pubblico della scuola italiana.
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Sono molte le citazioni letterarie e filosofiche nel romanzo. Ho pensato a Dieci piccoli indiani di Agatha Christie, a pellicole parodistiche come Invito a cena con delitto. L’unità di tempo e di luogo (un tardo pomeriggio-sera, una location unica: il casale in Toscana) conducono alle ben note unità aristoteliche. Non pensa che potrebbe essere altrettanto ficcante una riduzione teatrale del suo romanzo?
Sì, sono d’accordo. Mi sono formato negli anni Ottanta e perciò quello è il mio immaginario in termini di libri e film. Le note sulle citazioni, al termine del romanzo, sono un gioco col lettore che si è impegnato a scovarle nel testo. Sono in tanti a chiedermi: «Quand’è che diventa un film?». Io, guarda caso, invece, ho spesso pensato al teatro. Ho pensato che da questo libro si potrebbe tirar fuori una pièce, di ispirazione francese, molto dialogata e con tempi distesi. L’ho pensato ma non l’ho mai detto prima d’ora: non al cinema ma a teatro!
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Pensando alla situazione di Questa notte sono io mi è venuto in mente il romanzo di Edoardo Albinati, La scuola cattolica (vincitore del Premio Strega 2016). Sullo sfondo di quel romanzo alcuni dei giovani della Roma bene degli anni Settanta si sono macchiati dell’orribile delitto del Circeo. Nel suo libro ci sono i giovani borghesi romani del Baby-Boom degli anni Ottanta. Come si è modificato o è rimasto tale nelle sue manifestazioni un certo tipo di bullismo pericoloso, attraverso le passate generazioni fino a oggi? Nell’epoca del villaggio globale può essere ancor più insidioso e letale?
Grazie del parallelo con Albinati, così gratificante per me. Penso che il trascorrere del tempo non cambi certi aspetti dell’essere umano. La necessità di sentirsi uguali e omologati, specie nei confronti di chi è differente, di sentirsi forte rispetto a chi è debole sono tratti caratteristici dell’umanità a prescindere dall’epoca in cui si vive. Il web non ha cambiato il contesto, né lo ha cambiato, per esempio, l’esser nato negli anni Ottanta o nei Settanta. È un dramma dell’essere umano, al quale la cultura, tutt’al più, può reagire. Ci sono comunque dei contesti storici in cui queste peculiarità possono essere più amplificate, ma lo vedo più come una piaga costante dell’umanità, inalterata. Non credo che la piazzetta, ovvero il posto piccolo dove le voci circolano e si parla di questo e di quello, o si danno etichette a questo o a quell’individuo o evento possa considerarsi diversa dall’attuale piazza virtuale. Il dramma è di chi, in qualunque epoca, si trova a vivere nel posto sbagliato e nel momento sbagliato.
Lei è stato corrispondente dagli Stati Uniti, ha fatto del giornalismo la sua professione e poi ha avuto successo presso il più vasto pubblico come conduttore televisivo. Come si è avvicinato alla forma romanzo e com’è nato lo spunto per questo suo libro?
Scrivere un romanzo è sempre stato un mio sogno, come per tante altre persone credo. Feltrinelli mi chiese qualche tempo fa un saggio sugli anni Ottanta; io gli contro-proposi un romanzo che è stato letto, pubblicato e ha avuto successo. Poi me ne chiesero un altro; Rizzoli me ne chiese un altro ancora ed eccomi qui. È una cosa che amo fare, mi piace tantissimo, è molto diversa dal mio lavoro abituale. Se il mio lavoro è il rigore, il tentativo di ricondurre alla realtà, il romanzo è libertà d’inventare e di scrivere, libertà assoluta per quanto mi riguarda.
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