Il “Baudelaire” di Sartre
Baudelaire è un noto saggio critico di Jean-Paul Sartre, scritto nel 1947. L’autore applica una lettura esistenzialista dell’opera del famoso poeta maledetto di Parigi, padre del modernismo, fino a mettere in luce l’uomo in tutte le sue paradossali sfaccettature. Il testo rimanda un ritratto alquanto severo del poeta al di là dei suoi versi, puntando l’occhio su quella vita tanto disarticolata e infelice da sembrare a tutti gli effetti ingiusta. «Certo non meritava quella madre, quelle eterne angustie finanziarie, quel consiglio di famiglia, quell’amante tirchia, né quella sifilide; e che di più ingiusto della sua fine prematura?» (Baudelaire, Jean-Paul Sartre, Oscar Mondadori, 2006, trad. Jacopo Darca). Ma ricordiamo, chi scrive è assertore di una concezione secondo la quale «la libera scelta che l’uomo fa di se stesso s’identifica assolutamente con ciò che si chiama il suo destino». Dunque: «e se l’avesse meritata, la sua vita», il poète maudit?
Egli è l’emblema dell’uomo incapace di ordinare le fila di un destino che gli si aggroviglia via via tra le mani, fino a diventare inestricabile e irrisolvibile. Il Baudelaire restituitoci da Sartre è un uomo che vive per la sua diversità e ne fa il principio primo e ultimo dell’esistenza, autocondannandosi, in questo modo, a una vita sempre lontana dal flusso della storia in cui confluiscono i destini umani. In virtù del suo genio proclamato, si sente diverso; ricerca anzi d’esserlo in ogni situazione al fine di marcare sempre il confine che divide il mondo, inteso come il resto delle cose, da lui.
Dove nasce questa vocazione estrema all’unicità? Sartre individua il nocciolo nel rapporto con la madre. Baudelaire, orfano di padre, vive nelle grazie e nelle attenzioni smisurate di questa al punto che «si sentiva unito al corpo e al cuore della madre da una sorta di partecipazione primitiva e mistica; si perdeva nella tiepida dolcezza del loro amore reciproco: nel caso suo non v’era che un focolare, che una famiglia, che una coppia incestuosa». Si sente figlio per diritto divino, e non esistenza errante e casuale. Il suo essere nel mondo trova assoluta giustificazione nell’essere figlio. Quest’amore idilliaco si frantuma però quando la madre si concede a seconde nozze con il generale Aupick, e qui si ha il punto focale della vicenda umana del poeta. Sentendosi completamente tradito e messo in disparte, Baudelaire si getta di forza nell’isolamento del quale si sente vittima.
Anziché subirlo, razionalizzarlo e digerirlo, ne fa una questione di principio: rovescia la sua passività in eterna attività e si consegna alla solitudine. Questo, secondo Sartre, è l’impegno assoluto che il poeta assume con se stesso, decidendo le sorti della sua presenza. “L’abbandono” della madre gli svela l’esistenza personale e lo proietta per la prima volta al di fuori dell’unione madre-figlio entro la quale si sente protetto e sempre giustificato. Si accorge di esistere come individuo singolo senza ancora un posto nel mondo, o meglio: le seconde nozze sono l’atto che determina la presa di coscienza, che diviene quindi imposta e non maturata. Baudelaire, umiliato, rivendica la sua solitudine come moto d’orgoglio assoluto, affinché questa venga per lo meno da se stesso e non da esterni. Prende su di sé l’individualità cui è stato messo di fronte e la carica al punto tale da farne la sua ragione di vita. «Ci troviamo di fronte alla scelta originaria che Baudelaire ha fatto di sé, a quell’impegno assoluto con cui ognuno di noi decide, in una determinata situazione, di ciò che sarà e di ciò che è»: in una parola, nel volersi solo, il nostro forgia il proprio destino.
In questa solitudine elettiva, Baudelaire si fa altro: altro dalla madre, altro dai compagni che lo prendono in giro, altro dal mondo. Non a caso, ne Il mio cuore messo a nudo, dirà: «io sono un altro. Distinto da voi tutti che mi fate soffrire. Voi potete perseguitarmi nella mia carne, non nel mio “essere un altro”». Alla vita si sottrare in virtù della sua diversità e non appartenenza. È lo stoico e metafisico orgoglio di chi, come un meccanismo di difesa, fa perno su se stesso e «si preferisce a tutto perché tutto lo abbandona». La sua condizione di diverso non ha base sociale, né successi, né esperienze forti, bensì solo l’estrema quanto sempre alimentata autoconvinzione che arde quale fuoco a ragione d’esistenza. Non è nelle conferme esterne che il suo essere genio si forma, quanto nella sua consapevole e voluta diversità, che lo toglie dal mondo e lo relega ai margini delle cose.
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Baudelaire ha disgusto del mondo perché è questa la terra dei “tutti” e del “tutto”, fatta di gente e materia esecrabile. Tende a mischiarsi con esso il meno possibile, al fine di preservare la sua alta alterità (emblematicamente, tocca le sue amanti con i guanti). Odia l’agire, poiché l’azione esiste tra le cose e l’umana materia, ossia «suppone un determinismo, inserisce la sua efficacia nella catena degli effetti e delle cause, obbedisce alla natura per comandarla», mentre predilige la creazione in quanto pura libertà, «gratuità voluta, ripensata, eretta a scopo». È il contrario dell’uomo faber, il borghese per eccellenza, incentrato su morali e scopi che regolano le lancette del tempo quotidiano dove impera categorica la legge secondo la quale “ad ogni azione corrisponde un’azione uguale e contraria”. Nessuna reazione uguale e contraria, nessun obiettivo fisso, concentrarsi in un progetto è pressoché impossibile per il nostro, che vive nell’abisso di un’esistenza costretta ad autogiustificarsi in sé medesima costantemente: da qui la scintilla dello Spleen, del tedio come risultato d’una scelta di vita. Il dolore come elemento di differenziazione: orgoglioso dolore sputato in faccia al mondo che conferma l’impossibilità di una qualsiasi riconciliazione con la vita.
Satana aleggia nei versi del poeta come un cattivo odore, i fiori non profumano e anzi sono l’artificio raffinato del Male che si appropria della bellezza per violentarla. «Ma che cos’è Satana, in fondo, se non il simbolo di quei bambini disobbedienti e imbronciati che domandano allo sguardo paterno di congelarli nella loro essenza di singoli e che fanno il male nella cornice del bene per affermar la loro individualità e farla consacrare?».
Baudelaire «ha rifiutato l’esperienza, nulla è venuto a cambiarlo dal di fuori e nulla ha imparato»: si è sottratto all’esercizio del vivere in nome della sua traumatica unicità, in essa si è rinchiuso e si è barricato, trovando a stento l’ossigeno per sopravvivere.
Il progetto-uomo Baudelaire è franato malamente fin dalla sua giovinezza, nel momento in cui ha scelto l’orgoglio come medicamento al torto subìto, e non lo ha mai deposto: un’arma che non ha ferito nient’altri che lui. È stato «un’esperienza in un vaso chiuso», vivendo nel timore della goffaggine (si ripensi ai versi finali de L’Albatros: «Le Poète est semblable au prince des nuées / Qui hante la tempête et se rit de l'archer; / Exilé sur le sol au milieu des huées, / Ses ailes de géant l'empêchent de marcher») e nella paura del contatto con la sporcizia delle cose.
Un uomo che si è preso troppo sul serio, non riuscendo mai a ridere decentemente di sé, a buttarsi nella mischia e a confondersi con gli altri: ha visto scorrergli la vita al di sotto col suo olezzo poco gradevole. Il Baudelaire di Sartre è un sorriso inespresso di riappacificazione con la vita troppo a lungo ritardato, fino a che non gli si è congelato sulla bocca. Ne è uscito un ghigno maligno, una stroncatura, un fiore ammalato.
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