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I soldi danno davvero la felicità? Intervista a Luciano Canova

I soldi danno davvero la felicità? Intervista a Luciano CanovaPossiamo misurare la felicità? Il metro della felicità (Mondadori, 2019) di Luciano Canova, professore di economia sperimentale, cerca di rispondere a questa domanda. Attenzione: non si tratta di una dissertazione filosofica o di un manuale di auto aiuto, ma di un saggio di economia, che spiega, in un linguaggio chiaro ed essenziale, come la felicità delle persone – possiamo chiamarlo anche il loro benessere psicofisico – sia un problema che interessa non solo i filosofi, ma anche gli economisti.

Si dice comunemente che "i soldi non fanno la felicità", ma è innegabile che il reddito è uno degli elementi basilari per garantire all'individuo un certo grado di benessere, insieme alla salute. Dobbiamo considerare però anche il quadro sociale in cui la persona è inserita, la sua fiducia nella comunità in cui vive, la libertà di prendere decisioni autonome e le relative motivazioni. Tutti questi elementi concorrono a farci raggiungere il nostro grado di felicità, come l'autore ci spiega in modo scorrevole e spesso anche divertente, rendendo al tempo stesso comprensibili al lettore alcuni importanti concetti economici e filosofici.

 

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Ma come si decide di occuparsi di felicità? Lo abbiamo chiesto al professor Canova in questa intervista.

 

Per prima cosa m'interesserebbe sapere cosa l'ha portata, nel suo percorso accademico, a interessarsi alla felicità e alla possibilità di analizzarla dal punto di vista economico.

In effetti il mondo dell'economia viene sempre associato alla contabilità, ai numeri dei commercialisti, alla finanza, mentre studiando Discipline Economiche e Sociali all'Università Bocconi ho scoperto l'economia politica, che ha tanti legami con la filosofia e con tutto il pensiero che sta dietro all'economia "dei numeri". Da lì uno si accorge che gli economisti, di fatto, hanno a cuore la felicità, anche considerata sotto altri nomi: si tratta di garantire il massimo del bene al maggior numero di persone e far sì che queste prendano delle decisioni individuali che le portino a stare meglio.

Pensando a questo ci si rende conto che non è poi così peregrino parlare di felicità in economia.

Durante il dottorato mi ero avvicinato molto al pensiero di Amartya Sen e alla sua idea della multidimensionalità del benessere e ho deciso di dedicarmi a questo. Per me la parola "felicità" è da usare con delicatezza e responsabilità perché, in un certo senso, è stata un po' abusata nel corso degli anni.

In generale, mi sono accorto che esiste tutta una letteratura sul benessere soggettivo e sulla sua misurazione; mi sono quindi avvicinato all'economia comportamentale di Kahneman, un mondo in cui si fanno esperimenti per capire come si sente una persona quando prende delle decisioni. Col passare degli anni continuo a sostenere che non sia un ossimoro unire le parole economia e felicità, perché sono strettamente in contatto.

I soldi danno davvero la felicità? Intervista a Luciano Canova

Nell'introduzione lei ha scritto «Non fornirò una definizione di felicità perché non credo sia possibile farlo». Fra tutte quelle presentate nel corso del saggio, quale rispecchia di più il suo pensiero personale?

Ci sono parole che restano sempre non del tutto definibili, penso a felicità come anche a gioco, che tutti sperimentano e di cui ciascuno si crea una propria definizione. L'elemento della felicità su cui tendo a concentrarmi è il senso del suo significato: un istante, un momento, un'esperienza che poi ci porta a dirci felici sono pregni di significato, e questa per me è la radice aristotelica del concetto di felicità, il dare significato a quello che si fa. Però faccio davvero fatica a trovare una definizione, ci sono forti interazioni tra le varie componenti. Sono un convinto sostenitore del fatto che il reddito è fondamentale per la felicità, ad esempio, anche se questo a volte viene messo un po' in dubbio.

Direi che per me la felicità sta nel dare un significato a ciò che si fa nella vita.

 

Lei ha scritto un libro molto gradevole, scorrevole, che si legge con facilità anche se non si possiedono particolari nozioni di economia, cosa non tanto frequente nel mondo accademico. È difficile rendere accessibili determinati concetti a un pubblico non specialista, oppure l'uso di un linguaggio complesso è una scelta che si potrebbe anche evitare?

Io difendo gli accademici, anche se negli ultimi anni mi sono dedicato di più alla divulgazione, che implica per forza l'uso di un linguaggio più accessibile a tutti. Ho lavorato parecchio su questo libro perché non è così semplice: la divulgazione richiede un impegno altrettanto oneroso di quello necessario alla ricerca in senso puro, che resta fondamentale. Devo dire che mi manca un po' il rigore metodologico degli scritti accademici, ma è logico che, dedicandomi alla divulgazione, mi resti meno tempo per le pubblicazioni strettamente scientifiche. L'utilizzo della lingua tecnica è fondamentale nella ricerca del rigore, anche se ci sono saggi accademici scritti in modo più accessibile. Ci sono grandi economisti che sono anche grandi scrittori, ma il linguaggio molto tecnico fa parte della retorica accademica.

I due mondi forse dovrebbero parlarsi di più, ma è difficile che ci si possa dedicare a entrambi i settori, anche se il lavoro più impegnativo resta senza dubbio quello degli accademici.

Sono un grande appassionato della figura di Galileo Galilei, a cui l'anno scorso ho dedicato una biografia, e di lui mi piace il fatto che sia stato un grandissimo scienziato e al tempo stesso un grande comunicatore.

I soldi danno davvero la felicità? Intervista a Luciano Canova

Viviamo in un momento in cui parlare di felicità sembra quasi utopico, tra crisi economica, disoccupazione, mancanza di posti di lavoro, incertezze politiche: lo scontento delle persone è palpabile e traspare soprattutto nei comportamenti registrati sui social. Stiamo perdendo la capacità di essere - o meglio, di sentirci felici - oppure è obiettivamente difficile farlo in una situazione così critica?

Io sottolineo due cose. La prima è che, quando si parla di felicità in una scala da zero a dieci, dobbiamo tener conto anche di chi sta tra zero e cinque. Non si può ignorare quando le cose vanno male,perché quando si parla di felicità s’intende anche riduzione della sofferenza e i momenti di crisi sono anzi molto utili, studiando le scienze sociali, perché è facile mantenere un pensiero positivo quando le cose vanno bene, ma si rischia di perdere di vista la pienezza dei concetti.

Bisogna anche distinguere tra percezione e dati oggettivi, confronti internazionali e contestualizzazione della propria frustrazione e percezione personale. Se consideriamo i dati globali dell'ONU, in Italia stiamo male o anche malissimo come idea di corruzione dell'ambiente circostante, o come sensazione di poter realizzare le aspirazioni personali, ma stiamo benissimo riguardo ad altre cose,come la salute. È importante dire che quello che i dati mostrano è che, a livello di sussistenza, il reddito spiega tutto nella qualità della vita, mentre se il reddito sale entrano in gioco anche altri fattori.

È vero che nei Paesi occidentali è in atto una tendenza negativa. Il ruolo dei social è fondamentale, perché permette ad esempio di studiare l'uso di determinate parole che indicano le percezioni dei singoli: la rete permette a molte più persone di allargare le proprie conoscenze, per cui gli effetti della digitalizzazione al momento sono molto fluidi, in parte negativi e in parte positivi.

Del resto, il concetto di felcità è cambiato moltissimo nel corso dei secoli e noi tendiamo a dimenticare che l'umanità, nel suo complesso, sta decisamente molto meglio che in passato.

 

Lei riporta una citazione di Jeffrey Sachs che dice «la crisi degli Stati Uniti non è economica, ma sociale». Quanto il sociale pesa anche nella crisi italiana, al di là dell'evidente recessione economica?

Da un punto di vista del capitale sociale assistiamo da anni a un'erosione della fiducia che sta alla base del vivere civile. Negli USA questo ha comportato il paradosso per cui salute e reddito sono migliorati negli ultimi quindici anni, mentre le altre componenti di una definizione della felicità sono peggiorate, generando un saldo negativo: percezione di libertà e rispetto delle regole sono in forte calo.

L'Italia ha ancora una rete sociale abbastanza strutturata, ma la sua erosione si avverte e bisogna tenerne conto. Sachs, analizzando la situazione americana, ha monetizzato la perdita del capitale sociale, che va a controbilanciare in negativo l'aumento del reddito.

La disoccupazione, ad esempio, ha un effetto pesantissimo sul benessere delle persone, non solo come perdita dello stipendio ma come evento che segna in profondità l'individuo, che tende a non sentirsi più parte della sua comunità di riferimento. Anche rientrando nel mondo del lavoro si tende a protrarre nel tempo questo effetto negativo, una specie di cicatrice che l'individuo continua a portarsi addosso e che può impedirgli persino di ritrovare il livello di felicità precedente.

Questo porta a fare delle riflessioni sul progetto del reddito di cittadinanza, per il quale sono previsti tanti soldi, ma che potrebbe rivelarsi una misura poco indovinata, soprattutto in quelle regioni dove la disoccupazione è alta ed è percepita in modo differente rispetto a regioni dove è più bassa. Da un lato può essere un incentivo a restare disoccupati, sotto forma di accettabilità sociale, dall'altro può incentivare il lavoro nero che supporta una parte di questa disoccupazione.

In Finlandia, dove la sperimentazione è stata molto più rigorosa di quella che si prospetta qui in Italia, ne è venuto fuori che questa misura non ha dato gli effetti sperati. Per me si tratta di un grande punto di domanda sul mondo del lavoro e sulle politiche relative.

 

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Chi è nato e cresciuto negli anni del boom economico ha convissuto con l'idea di uno sviluppo e una crescita illimitata, in un mondo in cui la felicità veniva più o meno assimilata al possesso di beni e al loro consumo, mentre oggi si è capito che le risorse mondiali non sono illimitate e non si può pensare di produrre e consumare all'infinito. È ancora possibile invertire la rotta e trovare uno status di benessere che non implichi il consumo sfrenato?

Questa è la grande domanda. Io non sono per nulla un fan della cosiddetta "decrescita felice", perché penso che non abbia alcuna base scientifica: le persome vogliono sempre avere di più, questo è connaturato alla dimensione umana. È vero che c'è un problema importante di risorse, ma credo molto nello sviluppo della tecnologia, che dovrebbe garantire una soluzione ai problemi energetici a partire dal riscaldamento globale. Si tratta di trovare dei modi di produzione che separino crescita e inquinamento: ci sono segnali incoraggianti in questo senso, per quanto riguarda economia circolare e economia di condivisione, perché considerare gli oggetti per il loro uso, come servizi anziché come proprietà, è già un notevole passo avanti.

Non esistono alternative a una crescita responsabile dell'economia verde, mentre penso che certe istanze della "decrescita felice" si adattino solo a chi ha raggiunto certi livelli di reddito e si può permettere cose come il consumo a Km zero o altre modalità del genere. La natura umana vuole muoversi e contaminarsi: i prodotti agricoli hanno sempre viaggiato per migliaia di chilometri anche prima della rivoluzione industriale, pensiamo alle patate, ai pomodori, ai tanti vegetali importati da molto lontano. Il mercato è sempre globale, non ha senso rinchiudersi nel proprio recinto.

Trovo anche profondamente reazionario pensare che le persone debbano smettere di muoversi e di viaggiare. Si possono garantire gli stessi servizi progettando veicoli meno inquinanti, possiamo ideare aerei che consumino meno di quelli attuali, ma il ritorno a una comunità bucolica mi sembra del tutto irrealistico. Dobbiamo avere una fiducia concreta nelle possibilità di sviluppo.


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Per la prima foto, copyright: MI PHAM su Unsplash.

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