I sentimenti alla sbarra: Ippolito di Euripide e Fedra di Seneca
Il confronto tra il teatro greco e il latino acquista un particolare significato attraverso l’esame delle due tragedie, l’Ippolito di Euripide e la Fedra di Seneca, che, pur partendo dalla stessa trama ispirata allo stesso mito, presentano tuttavia caratteristiche profondamente diverse dovute al mutamento di gusto, di sensibilità, oltre che di concezione di vita.
In Seneca il conflitto dei sentimenti, e inoltre il conflitto tra ratio e passione si interiorizza a tal punto da divenire in Fedra la lacerazione della voluntas. Su questo estremo conflitto poggia la doppia tragedia di Fedra: la voluntas della passione che la precipita verso il crimen della confessione d’amore a Ippolito, e la voluntas della ratio che la riscatterà fino alla confessione a Teseo della propria colpa e dell’innocenza del giovane.
Ed è sdoppiamento del personaggio: la passione amorosa si trasforma in odio verso l’uomo che non ha compassione per i suoi tormenti e col suo atteggiamento la ferisce profondamente (Euripide), mentre amore e morte è connubio inevitabile per chi serba la perseveranza del suo amore e della sua coscienza (Seneca).
In Racine la passione di Fedra è fatale: rappresenta la terribile forza del male, forza simboleggiata dalla implacabile inimicizia della dea Venere, che la vince e l’abbatte, più dolorosa e meno colpevole dell’antica protagonista.
L’eroe della vicenda è il bellissimo Ippolito, figlio di Teseo e dell’amazzone Antiope, che fa voto alla Dea della caccia, Artemide, di eterna fedeltà promettendole, incautamente, di non pensare ad altra donna. Ma Afrodite, Dea dell’amore, ne rimane offesa e insinua nel cuore di Fedra, seconda moglie di Teseo, un amore folle e incontrollabile nei confronti del figliastro.
Fedra, respinta, si ammala d’amore, consumandosi fin quasi a morirne. La nutrice fa sapere a Ippolito che la sua padrona lo aspetta trepidante e che solo lui le potrebbe ridare la voglia di vivere, ma il casto giovane, anche sapendo che è la moglie di suo padre, si rifiuta devoto solo ad Artemide e dispregiatore dell’amore; anzi dà in escandescenze insultando talmente le donne che ne scaturirà per l’autore greco addirittura una imperitura fama di misogino.
Fedra, non corrisposta, s’impicca ma in una sua mano stringe un biglietto in cui accusa della sua morte Ippolito incolpandolo di averla violentata. Teseo, al colmo dell’ira chiede al Dio Poseidone di uccidere il figlio, che intanto del tutto invano cercava di professare la sua assoluta estraneità ai fatti. Viene espulso dal paese e un leone marino gli fa impazzire i cavalli i quali lo trascinano a morte.
Artemide, deus ex machina di questa tragedia, compare a Teseo e gli spiega la realtà dei fatti restituendo dignità sia ad Ippolito che a Fedra. Il dramma commuove e colpisce per la stretta delle opposizioni in cui si dibatte Fedra: la passione travolgente e la triste consapevolezza del carattere incestuoso del suo amore adulterino; e nella accettazione, seppure piena, della insana passione da parte della nutrice è contenuta non senza sbigottimento la domanda “Ma perché, visto che ad Afrodite, forza universale del mondo, sono soggetti uomini e dei, Fedra deve vedere nell’amore una colpa sanabile solo con la morte?”
La specificità di questa tragedia consiste appunto nel collocare il sentimento amoroso in un campo orientato di forze,
di misurare cioè la sua forza su quella degli ostacoli che gli si oppongono e viceversa.
Che la passione non soffochi nel silenzio, che pure era stata la scelta di Fedra nella prima stesura della tragedia,
è condizione perché esista il dramma. Tuttavia nel dramma euripideo Fedra non dice, fa dire alla nutrice,
sua interlocutrice e testimone del suo stato di estrema disperazione, ciò che non può più nascondere.
In Seneca invece è la stessa donna che rivela al figliastro la passione che arde in lei:
“C’è un torbido vapore che cuoce il mio cuore demente, ribolle feroce, nel profondo, dentro le mie midolla e penetra attraverso le mie vene un fuoco, un desiderio segreto... non macchiata da colpe, ma pura, innocente, per te solo io mi corrompo e risolutamente mi abbasso a pregarti: questo giorno, per me, porterà la fine: per il mio dolore o per la mia vita: pietà per la donna che ti ama!”
Quando la nutrice ha finalmente capito, la sua reazione ingigantisce e spaventa le angosce della donna innamorata. Venuto alla luce, e presa consistenza sociale attraverso la comunicazione, l’illecito è irreversibile. Fedra a questo punto ripercorrel’itinerario interiore della sua passione. Quando il silenzio e la virtù sono falliti nella loro funzione repressiva, resta il rimedio autentico o universale, “nessuno lo negherà”, la morte. E la morte è ciò che si profila al termine del discorso moralistico pronunciato dalla protagonista:
“Come Medea, dunque,anche la Fedra euripidea corrisponde a un modello di personaggio caratterizzato dalla compresenza di elementi irrazionali e di componenti di lucida razionalità.”
Alla sua prima uscita in scena ella è rappresentata dapprima in preda alla sua devastante passione. Quindi dal piano della passione passa a quella della riflessione razionale: lucidamente si rende conto dell’inutilità di lottare contro i suoi istinti e decide, con incertezza ed esitazione, di abbandonare il suo atteggiamento di reticenza e di rivelare la sua folle passione alla nutrice e alle donne di Trezene, lacerata dall’istinto e dalle convenzioni sociali che condannano come aberrante questo istinto. Fedra analizza tutte le tappe del suo folle sentimento: prima il silenzio ostinato con tutti per la vergogna, poi la lotta contro l’amore per rispettare i vincoli della morale, quindi la decisione di morire.
“O donne di Trezène, io spesso ho meditato come si corrompe la vita dei mortali. A me non sembra che gli uomini si trovino nella disgrazia a causa della loro ragione. In molti insito è il senno, ma bisogna tener presente che sappiamo e conosciamo il bene, ma non lo compiamo. Chi per inerzia, chi preferendo alla virtù qualche piacere. Ora, poi, che tali verità conosco, non c'è farmaco ond'io possa obliarle, e ad altro segno la mia mente volgere. E ti dirò qual via batte il mio spirito. Poi che l’amore mi ferì,cercai come potessi più agevolmente reggerne il peso. E cominciai da prima a celare la mia malattia, a restar muta: poi pensai di sopportar questa mia follia, domandola con la saggezza. E quando infine vidi che con questi mezzi non riuscivo a vincere l’amore ho deciso di morire: la scelta migliore, chi lo può negare?”
Anche per Fedra l’analisi razionale produce una conoscenza che non si identifica, socraticamente, con il bene ma solo con la dolorosa consapevolezza dell’immodificabilità della propria situazione. Ella pur conoscendo razionalmente il bene non riesce ad attuarlo nella realtà, ma tutta la sua vita è travolta dalla passione distruttiva. Sicché i valori dell’etica aristocratica consistenti nella purezza di Ippolito e nel senso dell’onore di Fedra finiscono per essere causa di rovina.
Artemide sancisce nell’epilogo della tragedia l’impossibilità per l’uomo di agire con autentica virtù in una realtà mossa da impulsi irrazionali (eros di Fedra, fanatismo di Ippolito, ira di Teseo) e dominata da divinità indecifrabili e tiranniche.
L’unica via aperta all’uomo è quella prospettata dal coro che si augura di trovare un compromesso con l’irrazionalità della realtà attraverso il rifiuto di principi inflessibili e l’assunzione di un atteggiamento docile e remissivo. Ed è questa l’unica risposta positiva proposta nell’Ippolito all’angosciante problema del rapporto dell’uomo con la realtà: la rinuncia teoretica e pragmatica e il ripiegamento in un ideale di vita proprio dell’uomo comune.
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