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“I ragazzi Burgess” di Elizabeth Strout

Elizabeth Strout, I ragazzi Burgessdi Giulia Taurino

I ragazzi Burgess parla del rapporto tra i fratelli Jim, Bob e Susan…” no. “I ragazzi Burgess parla di una comunità di somali nel Maine…” no. “I ragazzi Burgess parla di Zachary, diciannovenne disadattato che commette un atto di razzismo…” no. “I ragazzi Burgess parla della crisi coniugale tra Helen e Jim…” no.

Ricominciamo. I ragazzi Burgess – quarto romanzo della scrittrice americana Elizabeth Strout, edito da Fazi Editore con la traduzione di Silvia Castoldi – parla del rapporto tra i fratelli Jim, Bob e Susan Burgess, nati nel Maine. Mentre Jim e Bob vivono a New York, Susan è rimasta a Shirley Falls. Un crimine di razzismo commesso dal figlio diciannovenne di Susan – Zachary – contro la comunità somala locale riporta i due fratelli, entrambi avvocati, nel paese natale. Fin dal primo capitolo, incontriamo Helen, moglie di Jim, che ci accompagna  durante l’intero romanzo con il suo sguardo ingenuo e ottuso, fino alla scoperta del tradimento del marito al quale reagirà con un emblematico «Non capisco». L’evoluzione del personaggio di Jim ripercorre passo per passo lo stereotipo dell’uomo di successo asservito al denaro.  Apparentemente perfetto con l’irridente sarcasmo che lo contraddistingue, vediamo la sua debole personalità sgretolarsi a poco a poco: dopo averlo scoperto colpevole della morte del padre, lo sorprendiamo nella canonica relazione extra-coniugale con la segretaria. Ma torniamo al rapporto tra i fratelli Burgess. Con il suo gesto irrazionale, Zachary attira a Shirley Falls i due zii che si riuniscono per risolvere la situazione. Riconosciamo subito i ruoli: se da una parte Jim è il personaggio dominante, dall’altra l’“inutile” Bob è il capro espiatorio su cui Jim e Susan riversano le loro personali frustrazioni. Susan subisce a sua volta le ripercussioni psicologiche del mancato affetto da parte della madre e di un matrimonio fallito con l’ex marito svedese.

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Elizabeth Strout, I ragazzi BurgessNel corso del romanzo, i ruoli si ribalteranno in quell’unico spunto interessante dell’intera vicenda. In questo assetto da soap opera compare, inoltre, Pam, ex moglie di Bob, la cui voce viene utilizzata come banale strategia narrativa per fornirci informazioni sparse, da rivelazioni sul passato dei Burgess a cenni confusi sulla migrazione dei somali nel Maine. Perché sì, questo romanzo parla anche dei somali nel Maine. E lo fa attraverso il personaggio di Abdikarim Ahmed, con un’analisi socio-politica dalla superficialità sconcertante. Durante due terzi del libro, infatti, si parla lungamente del crimine commesso da Zach, delle reazioni della comunità somala e dell’andamento del processo, tanto che si potrebbe pensare che i restanti personaggi con le loro reazioni compaiano in funzione di questo racconto. Eppure, non sentiremo mai parlare Zach nella narrazione e non troveremo mai il suo punto di vista, se non in frasi disarmanti come «Non ci crederesti, zio Bob. Ragazze bellissime dappertutto» o «È tutto uguale. Però è anche diverso» pronunciate al suo ritorno dal viaggio/fuga in Svezia dal padre. Non conosceremo mai realmente Zach, non sapremo mai davvero perché ha tirato una testa di maiale in una moschea. Così come non capiremo mai la comunità somala nel ritratto di Abdikarim Ahmed. E non capiremo mai fino in fondo neanche i fratelli Burgess, in quell’epilogo improbabile molto simile a un “e vissero tutti felici e contenti”.

Non bastano «le nuvole autunnali, splendide nella loro oscurità screziata», o «l’erba di un verde sbiadito e le querce rosse» ad arricchire questo romanzo, che si rivela, infine, una grande delusione rispetto alle abilità narrative dimostrate dalla Strout in Olive Kitteridge.

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