I racconti di Guido Gozzano. La malinconia del passato e l’angoscia del futuro
«Non amo che le rose/che non colsi.» (Cocotte); «è il vero figlio del tempo nostro» (Totò Merùmeni); «“… Ti piacerebbe morire?”/“Sì!”» (L’amica di nonna Speranza) sono solo alcuni dei versi più belli e affascinanti scritti dal più beffardo e inquieto artista della letteratura italiana: Guido Gozzano. Oltre che talentuoso poeta, apprezzato da Eugenio Montale, Gozzano è stato anche un raffinato e riuscito autore di racconti, questi ultimi forse poco conosciuti rispetto alle sue raccolte poetiche. Nei suoi brevi racconti descrive, con toni tanto sobri quanto ironici, i tormenti e gli spaventi di un periodo, quello tra Ottocento e Novecento, caratterizzato da profondi cambiamenti. Guido Gozzano dà il suo ultimo, malinconico addio a un secolo e si prepara, non senza preoccupazioni, ad accogliere il nuovo.
«Mi piace quest’abolizione momentanea di ogni traccia di moderno progresso. Le rotaie sono sepolte, nessuna automobile, nessuna tramvia, nessuna svelta figura di donna… Si può dimenticare il presente.» (Un vergiliato sotto la neve)
Un vergiliato sotto la neve è a mio avviso uno dei racconti più interessanti dell’intera raccolta. Siamo nella città di Torino, culla e tomba di Guido Gozzano, che nel 1911 ospitò l’Esposizione Internazionale.
«quello spazio immane che sarà tra poco animato dal rombo delle macchine vibranti e pulsanti, dall’agitarsi dei volanti, delle turbine, dei propulsori, delle puleggie, dalle più grandi conquiste che l’uomo abbia fatte col metallo soggiogato dal calcolo esatto, quell’edificio così silenzioso e deserto incute un senso misterioso di terrore.»
È il terrore causato da «un cattivo sogno», quello stesso da cui vorrà fuggire Jeanette, la donna che accompagna il poeta nel suo peregrinare. Gozzano è intimorito «da uno spettro che […] minaccia alle spalle…».
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Quel giorno la neve cade a fiocchi e tutta Torino viene coperta da una soffice, candida coltre che crea un’atmosfera da sogno, irreale. Ed è proprio la neve a cancellare per un attimo tutte le tracce del presente e del progresso – i trionfali protagonisti dell’Esposizione Internazionale.
«La neve copre la città di un’immensa pagina bianca sulla quale è facile disegnare le più strane fantasie, resuscitare la cosa impossibile – anche impossibile a Dio! –: resuscitare il passato.»
Ecco che allora il poeta vede Carlo Alberto; Massimo d’Azeglio; Cesare Balbo; Giovanni Berchet; Vincenzo Gioberti e il conte Cavour «che va al Ministero, dandosi la storica fregatina di mano.» Durante il cammino, fatto assieme a Jeanette, Gozzano poi ricorderà anche lo scultore torinese Davide Calandra e l’architetto del tardo barocco Filippo Iuvarra. È il passato che scivola dalle mani, come la neve che cade per poi non essere più; il passato che cede il passo al nuovo, accolto con entusiasmo e con preoccupazione.
«Ma quale conquistador? È mai possibile che tre secoli possano annientare a tal segno ogni memoria del nostro passaggio sulla terra?» (Goa: “La Dourada”)
Questo si domanda Guido Gozzano mentre si trova a Goa, il più piccolo stato federato dell’India che visitò durante il suo viaggio in Oriente, la fantastica cuna del mondo. Lo scorrere inesorabile del tempo atterrisce perché avvicina alla fine, alla morte spietata. Ed è proprio con questa immagine che si chiude il racconto Un vergiliato sotto la neve.
«– A che scopo… S’invecchia… si muore!»
La morte è una presenza ossessiva e costante nei versi e nei racconti di Guido Gozzano; da questa è impossibile scappare.
«eppure la mia fantasia si perde, non riesce ad animare la città sepolta; la penso morta da mill’anni, avvolta nel sudario che distenderà sulle cose il cataclisma apocalittico, il gelo finale.» (Un vergiliato sotto la neve)
Un sentimento della fine ineluttabile, fattosi ancora più opprimente quando Gozzano scoprì di essere malato di tubercolosi.
Sotto la scorza della sua sferzante ironia si nasconde l’animo inquieto di un artista che cercò di trattenere a sé un pezzo di passato, così rassicurante e commovente nella sua ingenuità.
«Io guardavo, oltre il cristallo, i ruderi del palazzo lontano, le colonne d’ingresso, il balcone non più fiorito. Pensavo il vecchio ginocchioni ed officiante… Il demone dell’ironia mi forzava il sorriso…
La signora mi guardò, accorata.
-Non ridere, non ridere!
Accarezzò Khy-San, l’acquietò con una pasta alla crema; ebbe nella voce e nello sguardo un disperato rimpianto, e fu per me la rivelazione certa:
-Voi, giovani, non potete comprendere. Ma era dolce amare, era dolce essere amati così!» (L’altare del passato)
L’altare del passato è l’amara storia del vecchio conte Fiorenzo che ha costruito nella sua dimora un museo dove conservare le tracce del suo passato e dei suoi tanti amori; I sandali della diva racconta dell’incontro tra il piccolo Gozzano e la grande ballerina Palmira Zacchi, un tempo famosa e ora vittima di una società egoista e gretta; Garibaldina invece ricorda la storia d’amore tra Ortensia N. e un garibaldino. In ognuno di questi racconti la memoria vaga nei ricordi di un passato irrimediabilmente perso: la giovinezza, con le sue passioni e la sua sincerità, ora ha lasciato posto all’aridità e allo squallore dell’età adulta.
«il riflesso della giovinezza, l’unica cosa che valga, la bellezza sola, spenta la quale nulla c’è di buono per l’anima in attesa del sonno senza risveglio.» (I sandali della diva)
Il presente ha strappato via il candore e la sicurezza del passato, facendo posto all’inquietudine atroce che accompagna sempre ogni cambiamento. Il nuovo secolo si apre con il grande prodigio del cinema, di cui Gozzano parla nei gustosi e dissacranti Pamela-films e Il nastro di celluloide e i serpi di Laocoonte.
«Che cosa ci prepara, oggi, questa industria potente e prepotente come il denaro? Voglia il cielo che non sia un sintomo di decadenza che ci avvolge insensibilmente e che non avvertiamo, come non si avverte l’atmosfera viziata a poco a poco.» (Il nastro di celluloide e i serpi di Laocoonte)
È il secolo prepotente del calcolo e del guadagno. In Un addio il giovane Tito Vinadio sta per partire per la guerra – il racconto è del 1916 – e, per questo motivo, decide di dare un ultimo saluto agli zii. Nemmeno il pensiero dei pericoli che dovrà affrontare il nipote li frena dal parlare di affari e di soldi. I sentimenti e gli affetti sono stati soppiantati dall’interesse per il denaro.
«–Non dire sciocchezze, – sibilò il marito con ira contenuta, – è un discorso che proseguo a malincuore perché mi porta inevitabilmente a qualche allusione e può sembrarti odiosa. Ecco, si tratta di non lasciare abbandonati i valori che tu hai, cartelle ferroviarie, titoli dello Stato, nell’ipotesi d’un decesso e qualunque siano le tue intenzioni. Intenzioni che ci saranno sacre…»
A completare questo quadro poco edificante contribuì poi la grande tragedia della Prima guerra mondiale che svelò la vera, turpe, violenta natura dell’essere umano, come sottolineato nella novella La belva bionda del 1914:
«Ora io penso che una forza minima sia quella che trattiene il vecchio giocatore dal rubare, la moglie bellissima dall’uccidere il vecchio marito, i due giovani aitanti dal ghermire la bellissima moglie e contendersela, magari, con una lotta mortale; una forza minima, una barriera fragile, fatta di parole: civiltà… educazione… lealtà… bontà… onore… coscienza: tutte belle cose astratte, che non reggono quando entra in campo la Forza.»
Una Guerra che stravolge ogni cosa, perfino la morale: «Ferire, uccidere, rubare, ghermire. Delitti fino a ieri. Ma oggi si chiamano: coraggio, valore, nobiltà, ideale…»
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Un presente e un futuro poco incoraggianti e questo creò solo smarrimento nell’animo del fragile e malato Guido Gozzano.
Ecco forse il perché del suo viaggio compiuto in India: la necessità di ritrovare l’ingenuità e il candore del passato in una civiltà millenaria come quella indiana. Gozzano forse ritrovò in essa quella sicurezza che il presente con violenza gli aveva tolto; quell’illusione di poter per un attimo arrestare lo scorrere del tempo, svestire i panni dell’adulto arido, cinico ed ironico e ritornare il bambino che gioca nel «bel giardino di vent’anni or sono!»
«Patrick e Matthew non sfaccendano più.
Sono distesi in terra con le spalle al muro, dormono e cantano. Il loro sogno indolente si traduce per sé stesso, attraverso i denti chiusi, in una musica sonnolenta e bizzarra: azione riflessa, commento delle cose, parafrasi della solitudine e dell’esilio, del caldo e del silenzio…» (Un Natale a Ceylon)
Per la prima foto, copyright: Gabriel Matula su Unsplash.
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