I peggiori insulti contro le donne. La storia della Repubblica Italiana
Gli insulti contro le donne costituiscono una vera e propria casistica, non nel senso che sono un’eccezione alla regola, ma proprio perché, raccolti e analizzati nel loro insieme, possono costituire un supporto allo studio delle abitudini di un popolo e di una nazione.
Da questo punto di vista risulta molto utile la lettura di Stai zitta e va’ in cucina. Breve storia del maschilismo in politica da Togliatti a Grillo (edito da Bollati Boringhieri), nel quale Filippo Maria Battaglia ripercorre la storia degli insulti peggiori rivolti alla donna nell’arco della storia della Repubblica Italiana.
Riportiamo, qui di seguito, alcuni degli insulti più coloriti e rappresentativi raccolti da Battaglia:
«Per sbagliare bastiamo noi. E sarebbe eccessivo che vi aggiungeste anche voialtre»
È il 20 ottobre 1945. La guerra si è appena conclusa, l’Italia è ancora per qualche mese una monarchia. Il presidente del Consiglio Ferruccio Parri, tra i padri della futura repubblica antifascista, commenta così il diritto di voto alle donne, introdotto grazie a un decreto del febbraio di quell’anno.
«Dia retta a me, signora, non si scalmani»
Nel 1945, Ada Gobetti è nominata vicesindaco di Torino e prova a parlare con gli altri due colleghi «di problemi concreti», ma il dc Gioacchino Quarello le risponde secco: «Dia retta a me, signora, non si scalmani». E il socialista Domenico Chiaramello aggiunge: «Ma guarda un po’ che idee rivoluzionarie s’è messa in testa la nostra Ada! Ah ah, testolina bizzarra!».
«Invece di andare a votare farebbero meglio ad occuparsi di cucina»
A scrivere la frase è Guareschi (Facciamo quattro chiacchiere, Signora, in «Gioia», 7 aprile 1946).
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«In una donna è difficile distinguere dove finisca l’appello del sesso e dove incomincino le attrattive minori»
Nel ’48, la comunista Laura Diaz, a 28 anni, viene eletta alla Camera con quarantamila preferenze. È giovane e avvenente, e allora ci «si chiede se questo plebiscito sia offerto alla sua bellezza o alle sue capacità politiche», affrettandosi ad aggiungere quanto abbiamo riportato sopra (U. Zatterin, Deputatesse, in «La Stampa»).
«La specialità e l’essenzialità della missione della donna è quella della maternità»
La frase è di Umberto Tupini, uno dei vicepresidenti dell’Assemblea Costituente, durante le discussioni relative all’articolo 37 della nostra Costituzione sui diritti della donna lavoratrice.
«La moglie fa la moglie e basta!»
È il senatore repubblicano Giovanni Conti, nel 1952.
«La promozione sociale e professionale femminile è ricca di germi di instabilità familiare»
È il deputato dc Franco Foschi a pronunciare la frase il 25 novembre 1969 e a definire contestualmente una «nevrosi» il desiderio della donna di lavorare.
«Ragazze, anche voi, come noi, avete una sola aspirazione: una casa, una famiglia»
È l’Udi (Unione donne italiane) a usare questa frase su un volantino per fare proseliti tra le iscritte all’Azione cattolica.
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«Le donne che abortiscono sono ragazzette che vogliono il godimento sessuale a buon mercato»
L’autore di questa perla è il deputato Antonino Macaluso, il 2 marzo 1976.
«Talmente sfacciate e provocatrici e aggressive che proprio le vogliono loro le botte, si può menar le mani: ma è sempre più dignitoso aspettare che cominci lei»
Questo è il latinista e deputato comunista Concetto Marchesi.
«Altro che da Camera, siete da camera da letto» – «Siete contrarie perché volete continuare a essere scopate»
Sono insulti lanciati da alcuni senatori alle deputate che irrompono a Palazzo Madama durante il dibattito sul disegno di legge sulla procreazione assistita.
A che pro una raccolta ragionata degli insulti contro le donne durante la storia della Repubblica Italiana? A determinare le radici dell’attuale situazione nel nostro Paese, pur senza voler proporre alcuna giustificazione. Lasciamo, a questo punto, la parola allo stesso Battaglia che, nel capitolo conclusivo del libro, così chiosa:
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A bassa quota: se i numeri rosa sono tutti chiaroscuri
Dietro Paesi come Bangladesh, Mozambico, Bulgaria e Costarica. Poco sopra Angola, Messico e Bolivia. È lì, al 37° posto, che si trova l’Italia nella classifica sulla parità di genere in politica.
I dati del World economic forum raccontano di un Paese che guadagna qualche posizione. Ma avvertono come la strada da percorrere sia lunga e ancora in salita. Non solo perché davanti a noi ci sono Stati con una tradizione meno forte della nostra (tra gli altri, Senegal, Uganda e Burundi). Ma soprattutto perché le statistiche Wef sono solo le ultime di una lunga serie in grado di fotografare un retaggio culturale antichissimo e che tuttavia sembra ancora godere di ottima salute.
I numeri più significativi arrivano dall’Eige, l’Istituto europeo per l’eguaglianza di genere. Secondo l’agenzia indipendente della Ue, il nostro Paese in Europa è solo 23° nella classifica sulla discriminazione sessuale. Come la Slovenia, e sopra solo a Grecia, Bulgaria e Romania. Non basta. Se si considera il Pil, si scopre che il nostro è il più ricco tra i 13 Stati in fondo alla classifica.
E la situazione peggiora quando si dà un occhio ai dati sul «potere» (sia politico sia economico). Qui l’Italia è il fanalino di coda, sopra solo a Lussemburgo e Cipro.
I segnali incoraggianti si rintracciano se si guarda all’andamento degli ultimi tempi. Il rating del nostro Paese, infatti, è in leggera ripresa. A incidere, l’approvazione di diverse leggi ma soprattutto le ultime elezioni politiche. Nella XVII legislatura, iniziata nel marzo 2013, la percentuale delle parlamentari è salita dal 19,5% a poco più del 30%, superando per la prima volta la media Ue (27%). Nei prossimi anni l’incremento delle parlamentari sarà incoraggiato dalle norme sulla parità di genere della nuova legge elettorale e ha già portato, come è capitato in altri Paesi, ad un abbassamento dell’età media dei politici. Le donne sono infatti mediamente più giovani dei loro colleghi: oltre la metà delle elette (58,1%) ha meno di 50 anni contro il 41,3% dei maschi. L’inversione di rotta riguarda anche gli ultimi governi. Quelli guidati da Enrico Letta e Matteo Renzi registrano le percentuali più alte di donne (rispettivamente col 31,82% e 47,06%). Dal 2013 l’Italia si posiziona così nella parte alta della classifica dell’Unione europea, dove la media delle ministre è del 28%.
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Una buona notizia? Solo se la si guarda da lontano. Analizzando i dati con maggiore attenzione si scopre che la renitenza per le donne ai posti di vertice continua a riscuotere un certo consenso sia in Aula sia a Palazzo Chigi. Consideriamo i ruoli parlamentari più importanti della XVII legislatura. La presenza femminile tra capigruppo, presidenti di commissione e uffici di presidenza si dimezza e scende dal 30% al 16%. Lo stesso accade coi governi. Tra i dicasteri più pesanti (quelli con «portafogli»), la percentuale di ministre nell’esecutivo Renzi precipita dal 50% al 35,7%. E scende al 27% se si considerano anche gli incarichi di viceministri e sottosegretari. Non solo. La situazione peggiora se si include anche la politica locale. Tra enti centrali e periferici i dati si fanno molto più impietosi: solo il 19,73% degli incarichi istituzionali è ricoperto da donne. In cima alla lista nera, i comuni e le regioni: secondo i dati Ocse, a novembre 2014 le sindache erano 789, poco più di un decimo dei colleghi maschi (7238). Le stesse percentuali si registrano nei consigli regionali: solo 146 le donne elette su 1065 posti disponibili. Uno scenario fosco, spiega l’Ocse, che nota come sull’«accesso alle istituzioni e alla rappresentanza» l’Italia resti indietro rispetto ad altri Paesi dell’Organizzazione, nonostante l’aumento di incarichi nazionali ricoperti da donne. È a questo aumento che è affidato l’ottimismo per i prossimi anni.
Qualche altro segnale incoraggiante arriva poi dai più giovani. Riguarda i dati Istat sulla «partecipazione politica» e racconta un Paese diviso in due a livello generazionale. Le donne over 75 che si informano sul tema sono molto meno dei loro coetanei (57,2% contro 79,9%). Un divario netto, che però diminuisce gradualmente con l’abbassamento dell’età fino a ridursi al suo minimo coi neomaggiorenni. Qui le differenze di genere sono quasi irrilevanti (74,3% i ragazzi, 71% le ragazze) e il tasso degli interessati resta comunque piuttosto elevato, smentendo la solita vulgata del disinteresse dei più giovani per la politica. Anche a queste percentuali è affidata la speranza che i dati che inchiodano l’Italia tra i Paesi più maschilisti d’Europa possano gradualmente cambiare.
***
Riusciremo mai a uscire fuori dal luogo comune e dagli stereotipi che soggiacciono a questi insulti, trai i peggiori che hanno attraversato la storia della Repubblica Italiana?
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