I paesaggi più belli sono costruiti di sera dietro a treni in fuga. “Chiodi” di Agota Kristof
Kristóf Ágota ha ventun anni quando la rivoluzione ungherese del 1956 viene soffocata nel sangue e suo marito è costretto a fuggire portando con sé lei e la loro bambina di appena quattro mesi. Troveranno accoglienza a Neuchâtel, nella Svizzera francofona, e da quel momento in poi Kristóf Ágota – secondo l'usanza ungherese il cognome viene prima del nome – si chiamerà Agota Kristof, senza più gli accenti ungheresi, a testimoniare l'esilio dalla lingua materna e quel senso di perdita che la accompagnerà per tutta la vita.
Non conosce il francese, nei primi cinque anni lavora come operaia in una fabbrica di orologi e cresce sua figlia, ma sente il bisogno di scrivere. Compone poesie in ungherese, seguendo anche una lunga e nobile tradizione della madrepatria, che vanta un’importante produzione poetica di qualità molto elevata. Le scrive forse anche sulla scia dell'eredità paterna: sono note alcune poesie pubblicate su giornali di provincia di suo padre, Kristóf Kálmán, maestro di scuola, che nel 1948 sarà condannato a una lunga pena detentiva per motivi politici. Qualcuna delle poesie giovanili di Agota Kristof saranno pubblicate negli anni Sessanta su riviste ungheresi dell'emigrazione, «Irodalmi Újság» e «Magyar Mühely», redatte entrambe a Parigi. Saranno anche i suoi primi passi verso la prosa: come esercizio linguistico, cercherà di tradurle in francese ma il risultato non la soddisfarà, quindi le trasformerà in brevi racconti, rendendo lo stile più scarno, privando i versi di aggettivi ritenuti superflui. Da questi piccoli tentativi narrativi nasceranno prima le pièce teatrali, ovvero gli esordi di Agota Kristof nel mondo letterario francese, e in seguito quei romanzi che la renderanno protagonista della letteratura di fine millennio e tradotta in quaranta lingue.
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Helvetic Archives, gli archivi della Confederazione Svizzera, nel lascito della scrittrice custodiscono anche le sue poesie ungheresi, inedite in vita ma con l'autorizzazione di pubblicarle, rilasciata dalla scrittrice poco prima della sua morte avvenuta nel 2011. Per la prima volta le pubblica una casa editrice svizzera, Éditions Zoé, con il titolo Clous, nel 2016, in un'edizione bilingue ungherese e francese, e ora sono disponibili anche in italiano grazie alla casa editrice italo-svizzera Casagrande. L'edizione italiana ha mantenuto lo stesso titolo, quello di uno dei componimenti: Chiodi; le poesie dall'ungherese hanno avuto la fortuna di essere state tradotte da Vera Gheno, le molto meno numerose e scritte in francese hanno beneficiato invece della traduzione di Fabio Pusterla.
«We cannot fail to notice in these poems the quintessential nucleus of Kristof's prose and dramatic works as well as the ispirational power of the mother tongue […] The poems of Agota Kristof embody spatial and corporal freedom, like Chagall in words» (In queste poesie troviamo già il vero e proprio nucleo delle opere narrative e teatrali di Agota Kristof, nonché la forte ispirazione della lingua madre […] Le poesie di Agota Kristof hanno in sé quella libertà di spazio e corpo come se fossero dipinti di Chagall in parole), dice Alice-Catherine Carls in World Literature Today, e nel suo articolo su «La Lettura» di pochi giorni fa Roberto Galaverni lo conferma: «I versi scritti, perduti e riscritti in ungherese da Agota Kristof costituiscono una sorta di matrice dei temi e delle atmosfere delle successive opere narrative in francese».
Nella prosa di Kristof non troviamo però solamente le sue poesie, nelle descrizioni oniriche di Ieri sono intessute molte poesie ungheresi antiche, come ha dichiarato nell'intervista rilasciata a Dóra Szekeres del portale ungherese della letteratura, Litera, pochi mesi prima di morire. Nel 2006 chiarisce a Gergely Nagy del settimanale ungherese «HVG», che l'evoluzione dallo stile poetico al minimalismo della sua prosa non era dovuta a difficoltà con la seconda lingua acquisita (anche se fino alla fine la riterrà lingua “nemica”): «Non ho scelto questo stile per questo motivo, ma perché non ne potevo più delle mie poesie. Erano fiorite e troppo sentimentali. Volevo essere più asciutta, più oggettiva.»
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Qualcuna un po' meno, altre invece molto, sono comunque tutte belle e coinvolgenti le poesie di questo volume. Curiose per l'assenza della punteggiatura, per la forma a volte narrativa, poi invece visceralmente poetica. Toccanti per le evocazioni, per i patetici e strazianti ricordi comuni a tanti ungheresi, che però Agota Kristof ha saputo rendere immortali. Come le righe dedicate ai quattro amici morti in esilio in E bella è la corda: «E amo gli amici morti che/non sono riusciti a sopportare/la lontananza e bella è la corda/quando culla corpi freddi/e bello è il veleno il gas il coltello».
Per la prima foto, copyright: Johannes Hofmann.
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