I nuovi sfruttati – Carlo che lavora senza orario
Uno dei concetti chiave delle analisi marxiane sul lavoro è il tempo: l’orario di lavoro che determina quanto sfruttamento fisico e pecuniario c’è a danno di un lavoratore. Tra gli straordinari esempi dello sfruttamento contemporaneo, Carlo, il mio nuovo amico Carlo, è forse il più significativo.
«Di dove sei, Carlo?»
«Polacco. Vengo a Foggia ogni anno per il pomodoro. Vengo con il pullman. Quest’anno sono dieci anni. Per festeggiare vado a Padre Pio a settembre, a chiedere una grazia»
«Quale grazia?»
«Che non muoio in un campo come un animale»
Carlo ha una quarantina d’anni, le mani indurite da due lavori pesantissimi: il bracciante in Italia e il meccanico in Polonia. Con quello che guadagna in Polonia non ce la fa a portare avanti una famiglia nella periferia di Cracovia. La Polonia sta viaggiando, ci sono grandi cantieri, ma nelle periferie si è concentrata la miseria del regime che non c’è più e i sottoprodotti umani di un capitalismo precoce, feroce, troppo veloce. Ha una moglie, due figli, un mutuo trentennale, una saldissima fede cattolica.
«Come arrivi qua? Chi ti porta?»
Si guarda intorno. Scruta l’orizzonte piatto della Capitanata assolata. Si passa una mano tra i sottilissimi capelli biondi: di un biondo bianco, angelico. Si terge il sudore dalla fronte.
«Con un capo polacco. Lui ha un’agenzia di viaggio. Io vado da lui ogni anno, perché mi chiama e mi mette in una lista. Siamo cinquanta con lui»
Il sistema del reclutamento dei braccianti a nero, o quasi a nero, è la sconfitta del reclutamento pubblico italiano: laddove non c’è lo Stato, ecco che i caporali, stranieri e italiani, si stringono intorno alla manodopera e la selezionano, la importano, la ghettizzano e la schiavizzano.
«Quanto prendi al giorno?»
«Trentadue euro»
«E quanto lasci al capo?»
«Dieci euro»
Gli restano ventidue euro, che per una sessantina di giorni di lavoro all’anno fa una miseria.
«Quanto tempo lavori?»
Qui Carlo è meno pronto a rispondere. Non per timidezza o paura, semplicemente non riesce a fare i conti.
«Eh, dipende. A volte dieci ore, ma pure dodici. Una volta, dovevamo riempire un camion, abbiamo fatto diciotto ore. Uno si è sentito male. Per fortuna il capo lo ha portato all’ospedale»
Pagando il trasporto dal campo al pronto soccorso, come accade sempre quando i braccianti non coperti da previdenza sono colti da malore sul campo.
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«Quindi ti fai una decina di ore al giorno?»
Alza le spalle. Davvero non riesce a fare una media. La giornata è liquida, il tempo liquefatto come in quel famoso quadro di De Chirico. La sola cosa densa è la fatica, che gli resta addosso per mesi.
«Quando torno al Paese devo stare fermo per qualche tempo. Devo riposare almeno per dieci giorni. Non riesco a rimettermi a lavorare… Voi italiani…»
Noi italiani! Ha ragione. Siamo noi italiani a volere tutto questo. Ma sono anche le imprese che comprano il pomodoro, che lo trasformano, che lo inscatolano, che lo vendono alla grande distribuzione, che ne ricavano un profitto scandaloso.
«Sai che ti dovrebbero pagare il doppio? E che dovresti lavorare di meno?», gli domando.
Lo sa, ma non lo ammette. Non è uno sprovveduto. È un cittadino comunitario, o meglio: uno schiavo neocomunitario. Ha un passaporto Ue, ma gli resta la patente di bracciante affetto da superlavoro. Li chiamano overworker: i nuovi sfruttati nel mondo contemporaneo.
«Devo andare», fa.
Ci salutiamo. Gli consiglio di fare una lunga preghiera da Padre Pio, lunga quanto la sua giornata di lavoro. Lui mi sorride e mi dice di non bestemmiare i santi, ma di pregare per la sua salute: che Dio gliela conservi ancora per una decina d’anni.
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