“I nomi che diamo alle cose”, il valore delle parole secondo Beatrice Masini
Bompiani ha appena pubblicato I nomi che diamo alle cose, il nuovo romanzo di Beatrice Masini, giornalista, traduttrice, editor e scrittrice nota soprattutto per i numerosi libri per l’infanzia pubblicati a partire dagli anni Novanta, ma che già con Tentativi di botanica degli affetti (Bompiani, 2013) aveva scelto di rivolgersi al pubblico adulto con successo: il romanzo era infatti arrivato in finale al Premio Campiello.
Spesso quando si desidera distrattamente qualcosa si finisce per ottenerlo senza sapere che farsene. È quello che scopre Anna, quarant'anni, un passato prossimo doloroso e irrisolto, un presente di lavoro-passione e leggerezza forzata, quando Iride Bandini, celebre autrice per ragazzi conosciuta anni prima, le lascia in eredità una piccola casa, la portineria della sua proprietà: un curioso, eccessivo gesto di gratitudine che invita Anna a cambiare vita senza rifletterci troppo.
Dalla città alla campagna, passato un primo periodo in solitudine nuovi legami s'impongono, si rendono necessari: un capomastro gentile e devoto, l'ex segretaria e il figlio irrequieto della scrittrice, uno sceicco che non è uno sceicco, una coppia di contadini con bambine, tutti sembrano volere qualcosa da Anna, come se la sua presenza in quel luogo non fosse quasi casuale ma richiesta.
E poi c'è una raccolta di fiabe inedite ritrovate in una scatola di latta, ci sono le storie di guerra e d'amore che solo certe case sanno raccontare, e i conti da fare coi propri nodi quando continuano a stringere, a far male.
Un romanzo che parla della cura degli altri e delle cose, di madri buone e figli cattivi o viceversa, di vino, cani e fantasmi, del peso da dare a ciò che si fa e alle parole che si scelgono per definirlo.
Ne abbiamo parlato con Beatrice Masini in quest’intervista.
Dopo una lunga carriera come giornalista e autrice di libri per bambini, i suoi ultimi romanzi sono rivolti agli adulti. La considera un’esperienza in più, oppure un cambiamento di rotta definitivo? Continuerà a scrivere per i bambini?
Dalle mie parti comandano le storie. Se una storia nasce per bambini la scrivo per bambini, se nasce per grandi la scrivo per grandi. Mi auguro di riuscire a continuare a fare tutte e due le cose secondo necessità, la mia.
Il titolo I nomi che diamo alle cose ci riporta a una citazione di Tolkien presente nel suo romanzo precedente Bambini nel bosco: «Le parole danno significato alle cose». È dunque il linguaggio a costruire il mondo intorno a noi?
La storia di quella citazione è lunga, ed è all’origine di un singolare legame con un altro scrittore italiano di oggi. Ma non dirò di più. Quello che è vero è che senza volerlo ho continuato a tornare a quel principio perché evidentemente è alla base di uno sguardo che ho scelto per mio. Il linguaggio costruisce il mondo, sì, fin da quando siamo bambini: quando ci impossessiamo di una parola conosciamo e definiamo anche la cosa corrispondente.
È così, di parola in parola, che arrediamo lentamente il nostro mondo. Un processo che continua anche da grandi con sfumature più ricche e interessanti: diamo significato a una parola, e alla cosa corrispondente, secondo l’estro, la necessità, l’opportunità. Insomma, manipoliamo il linguaggio. Ciascuno alla fine possiede il proprio, come il proprio vocabolario, e capirsi può diventare difficile se non si attribuisce lo stesso peso alle parole e alle cose.
Anna, la protagonista di I nomi che diamo alle cose, è una giornalista milanese come lei, mentre Iride Bandini, il suo alter ego, è una famosa autrice di libri per bambini: in pratica, rappresentano le due facce della sua attività letteraria. A quale dei due personaggi ha dato vita con più passione?
Sono convinta che si deve scrivere di ciò che si conosce, e anche la storia più fantastica, almeno dalle mie parti, è alla fine impastata con le cose di tutti i giorni. È stato quasi inevitabile attribuire a queste due donne delle pratiche che conosco bene. Ma era anche funzionale a una storia in cui il peso delle parole, scritte e dette ma anche non scritte e non dette, ha tanta importanza. Diciamo che sono stata più libera con Iride, mentre Anna in qualche modo mi è più vicina, e questo spiega forse la sua elusività: non volevo dire troppo di lei e nemmeno di me.
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Anna lascia la città per andare a vivere in una casa isolata in mezzo alla campagna, vicino al lago di Garda. Nei suoi pensieri, Milano assume una connotazione negativa sia come luogo in cui vivere, sia per il tipo di rapporti umani che si è lasciata alle spalle, visti in contrapposizione con le persone che incontra in campagna. Anche lei ha una visione negativa della città, o è soltanto una sensazione del personaggio?
Dopo tanti anni in bilico tra la città quotidiana e la campagna desiderata della vacanza sono arrivata a stabilire che ho bisogno di tutte e due. E non solo come ambienti o scenari, ma anche come modi di vivere. Diciamo che questo andirivieni compone due parti diversissime di me: quella cittadina è iperattiva e instancabile, quella di campagna prende con naturalezza ritmi lenti o lentissimi, è quasi accidiosa, si crogiola nella contemplazione.
Salvo che poi stare in campagna vuol dire dover fare tantissime cose pratiche, fisiche, muscolari: ci sono le piante, i fiori, l’ordine da mantenere. E quindi la me bucolica dopo un po’ diventa georgica, più simile alla sorella cittadina che non si ferma mai.
Iride, in realtà, non ama troppo incontrare i suoi lettori bambini, e del resto non è nemmeno legata al suo unico figlio. Si può amare la letteratura per l’infanzia restando sostanzialmente indifferente ai bambini? Qual è invece il suo rapporto personale con i piccoli lettori?
Certo che si può. Nessuno scrittore scrive per i lettori: lo fa per dare voce a una parte di sé che vuole farsi ascoltare. Poi certo che i lettori ci vogliono, e sono preziosi, ma arrivano molto dopo. Quindi uno scrittore per bambini scrive perché scrive, punto e basta. Non è importante che i bambini gli piacciano. È importante che gli interessino.
Dopo aver parlato con bambini e ragazzi a scuola o in biblioteca spesso mi sento dire che li tratto da grandi. Credo che sia un complimento, non sopporto paternalismi e bamboleggiamenti, e nemmeno quelle forme di spettacolo-intrattenimento che passano per incontri.
Lei è diventata celebre anche per le splendide traduzioni della saga di Harry Potter, di cui è riuscita a trasferire tutto l’incanto nonostante le obiettive difficoltà di mantenere lo stesso stile da una lingua all’altra. Quali sono stati i problemi maggiori che ha dovuto affrontare?
È passato tanto tempo, non me lo ricordo più. Mi sono molto divertita, questo sì.
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