“I momenti buoni” raccontati da Simone Perotti
I momenti buoni (Mondadori, 2021) è l’ultimo romanzo di Simone Perotti, autore estremamente eclettico, che ha all’attivo una serie di libri molto diversi tra loro: in questi anni è stato infatti in grado di spaziare dai racconti ai saggi, dai romanzi ai reportage di viaggio. Il suo Adesso basta. Lasciare il lavoro e cambiare vita (Chiarelettere, 2009) è ormai considerato un piccolo classico, mentre con Rais (Frassinelli, 2016) si è cimentato col romanzo storico e con Rapsodia mediterranea (Mondadori, 2019) ha raccontato la sua esperienza quinquennale alla scoperta del Mediterraneo, come skipper di una barca a vela impegnata in una serie di ricerche scientifiche, letterarie e antropologiche.
Cambiando come sempre tutto da un libro all’altro, questa volta Perotti ci propone un romanzo che potremmo definire di formazione, ma che contiene anche molto altro.
Protagonista di I momenti buoni è infatti Il Tranquillo, un ragazzino al principio dell’adolescenza che vive in un’imprecisata città di mare. Non ha vita facile: la sua è una famiglia di malavitosi, composta da un Re che è un padre assente, dalla Regina che è una madre instabile e depressa, dal Principe che è un fratello maggiore insopportabile e dalla Principessa che è una sorella preoccupata soltanto di sé stessa.
La Reggia è una casa da cui il Tranquillo cerca di restare il più possibile lontano, anche se non si può dire che al di fuori di essa le cose vadano poi tanto meglio, a parte l’impegno agonistico in una squadretta di calcio: a scuola, ad esempio, ci sono i Persecutori, bulletti che terrorizzano tutti. Se poi si decide di diventare amici del Pratico, un coetaneo che appartiene a una famiglia rivale della propria, è ovvio che appare sempre più difficile evitare di farsi coinvolgere in una faida di cui nessuno ricorda nemmeno più il motivo scatenante. E poi ci sono i turbamenti della crescita, le ragazze, la scoperta del sesso e la lusinga delle droghe: tutte cose che sembrano fatte apposta per complicare sempre di più la vita del Tranquillo, ma per fortuna ci sono anche adulti in grado di aiutarlo a trovare, nonostante tutto, la sua strada.
In questa intervista Simone Perotti ci racconta qualcosa in più del suo libro.
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In questo libro lei affronta veramente tanti temi: la vita nei quartieri degradati delle grandi città, la delinquenza, la droga, gli abusi sui minori, i clan mafiosi e molto altro ancora. Non ha avuto a volte l’impressione di aver messo troppa carne al fuoco, o provato la paura di perdersi?
La paura di perdermi l’ho provata, e assai profonda, leggendo sui verbali delle indagini di polizia, o nelle relazioni degli assistenti sociali, o nei documenti processuali della giustizia minorile. Da quelle fonti emerge un quadro della nostra società che ha dell’incredibile. Con un dato allarmante: le peggiori situazioni, che attribuiremmo a giovani tra i sedici e i vent’anni, riguardano oggi i ragazzini, o bambini, come li vogliamo chiamare, tra i dodici e i quindici. Scrivendo ho semmai tolto qualcosa dalla realtà, perché scriverla tutta sarebbe parso incredibile. Il vero paradosso, terribile, è che scrivere tutta la realtà fa sembrare non credibile un racconto. In questo senso si è capovolto il paradigma tra immaginario e reale.
Il quadro che presenta del mondo giovanile in questo libro è abbastanza desolante. Nemmeno il protagonista, in definitiva, riesce a evitare di avere dei comportamenti negativi. Cos’abbiamo sbagliato, se abbiamo sbagliato, noi adulti e genitori della generazione precedente?
I ragazzi sono quello che siamo. Sono i maestri che hanno. Sono il mondo che li circonda. Se loro sono allo sbando, senza riferimenti, o con esempi solo negativi, privi di maestri, o con maestri tragici, questo determina il fallimento della nostra società, e di noi come maestri. Se da adulti possiamo (pur con estrema pena) reggere l’urto col mondo che abbiamo disegnato e realizzato, da piccoli è massacrante vivere. E il dramma è il mondo che quei ragazzi, con questo esempio, questa formazione, costruiranno domani. Spero di essere già morto, perché in quel mondo non saprei come vivere.
In particolare, appare piuttosto distorto il rapporto dei ragazzi con il sesso, sempre più precoce e sempre più spesso “malato”. È il frutto della mancanza di un’educazione sessuale corretta, cosa su cui si discute da sempre, o di cosa d’altro?
Il sesso è una delle forme di relazione con se stessi e con gli altri. Si ama come si è, si tocca, si gode, si sente ciò che si è. Fare “educazione sessuale” non ha molto senso quando non c’è alcuna educazione sentimentale o esistenziale. Un mondo basato su simboli commerciali, sull’idea tutta quantitativa della relazione, senza alcuno scrupolo morale, senza domande essenziali come si vuole che ami? Chi fa parte di quel mondo compra, vende, spreca, butta, distrugge, esattamente come facciamo noi verso ciò che andrebbe amato: la natura, gli altri, il lavoro, la vita. L’idea che il sesso debba essere oggetto di una formazione a prescindere dalla vita degli uomini e delle donne che lo vivono è tipica di questa epoca. Toccheremo il corpo di una ragazza o di un ragazzo esattamente come viviamo. E questa temo che non sia una buona notizia.
Il romanzo si svolge in un’imprecisata città di mare, dove si è sbizzarrito a collocare elementi di luoghi diversi, da Genova a Palermo. Come mai ha fatto questa scelta abbastanza curiosa?
Genova, Palermo, Roma, Napoli e Marsiglia, per esattezza. Cioè una città mediana e meticcia del Mediterraneo contro-occidentale. Volevo sfuggire al rischio che questa storia venisse presa come “una storia napoletana” o romana o palermitana. Un tempo il teatro di questo romanzo sarebbe stato la periferia, dove il cancro della società si manifestava nel degrado, nella povertà, nella sospensione delle regole civili di convivenza e di benessere. Solo che mentre la città guadagnava terreno verso le periferie, elevandone tutti gli standard urbanistici, sanitari, sociali, culturali… la periferia dal degrado morale ha guadagnato terreno verso il centro della città. Oggi il palcoscenico di Una vita violenta è diventato ancora più orribile e si è esteso a tutta la società. La storia che racconto ne I momenti buoni, sintesi di centinaia di storie vere che capitano ogni giorno nel nostro Paese, e in tutti i Paesi del Nord Ovest del pianeta, non è purtroppo una storia che capita in qualche luogo specifico e non in altri. Ecco perché il suo valore è emblematico, non potevo rischiare che la si identificasse con una città o un quartiere.
La sua passione per il mare riesce comunque ad affiorare anche in questo romanzo. Visto che nella postfazione manifesta il desiderio di scrivere un romanzo di fantascienza, pensa che riuscirebbe a parlare di mare e di navigazione anche in quell’ambito?
Ah, e chi lo sa. Certo anche in questo romanzo, che pure è il meno “marino” dei miei diciassette libri, il mare ha un ruolo. È una finestra, una porta da aprire, è il lato migliore della città, quello che offre l’unica prospettiva di libertà, di pacificazione, di vita. Credo che il mare abbia ancora questa caratteristica. Uno dei guasti più evidenti di questa nostra italica società è non accorgerci più che lì davanti, qualunque cosa ci accada, abbiamo fortunatamente ancora il mare. Anche solo come compagno. Come possibilità. Ho il sospetto che questo non cambierà mai, dunque credo che finirebbe anche in qualsiasi storia di fantascienza. (Nella fantascienza le “navi” spaziali si muovono in un ambito che è solo privo di acqua, ma è simbolicamente un mare…).
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Come ha scritto anche nelle note finali, a lei piace sperimentare e scrivere ogni volta un libro diverso dai precedenti, come del resto appare scorrendo l’elenco di quanto ha pubblicato finora. Non teme che questo possa spiazzare un po’ i lettori?
Dopo molti anni e molte domande, credo di essermi ormai rassegnato (con soddisfazione intellettuale, un po’ meno commerciale) alla consapevolezza che io scrivo libri per gente che legge. Cioè scrivo libri per lettori, non libri che un non lettore possa facilmente leggere. E i lettori sfidano sempre l’autore. Vogliono da lui che li porti in un mondo, che gli faccia vivere un’esperienza umana, interiore, emotiva, intellettuale. Un autore come me, e come tanti miei colleghi che scrivono questo genere di libri, sente questa sfida, assume questa responsabilità su di sé. Anzi, da questa relazione aperta, orientata alla ricerca, trae buona parte della sua energia. È una storia che non finirà mai, tra noi. Di romanzo in romanzo.
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Per la prima foto, copyright: Anton Darius su Unsplash.
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