“I Malavoglia” e “L’isola di Arturo”. Il mare, il perturbante, l’età adulta
I Malavoglia di Giovanni Verga e L’isola di Arturo di Elsa Morante, nonostante siano stati scritti in secoli differenti, presentano dei punti in comune che sarebbe interessante, in poche battute, delineare.
Il romanzo di Verga, capolavoro del Verismo pubblicato nel 1881, narra della dolorosa odissea vissuta da una famiglia di umili pescatori di Aci Trezza, i Malavoglia. In questa sede, però, è opportuno che l’interesse si focalizzi su un membro solo della famiglia: il giovane ’Ntoni, nipote di padron ’Ntoni, il severo e saggio patriarca della famiglia, e figlio di Bastianazzo e di Maruzza.
Anche il racconto di Elsa Morante, pubblicato nel 1957, ambientato nella splendida e selvaggia isola di Procida, tratteggia, con dolce spietatezza, un viaggio: quello compiuto dall’adolescente Arturo Gerace verso il terribile e oscuro mondo della vita adulta.
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’Ntoni e Arturo, pagina dopo pagina, mano a mano che si sviluppa la storia, arrivano a condividere uno stesso destino, una stessa sorte.
Entrambi vivono in una località circondata dal mare: Aci Trezza, piccola comunità di pescatori, e l’isola di Procida. Questa “presenza” rappresenta, simbolicamente, una barriera che divide il loro piccolo mondo da tutto il resto: infatti sia Aci Trezza che Procida sembrano luoghi fuori dal tempo edalla Storia.
Il paesino di pescatori di Giovanni Verga è isolato dal resto della penisola: i grandi avvenimenti storici, come quello della sconfitta subita dagli italiani a Lissa nel 1866, compaiono timidamente nel corso della narrazione perché vengono vissuti come distanti, troppo lontani per dargli la giusta attenzione.
Anche la Procida di Arturo è estranea ai grandi eventi che stanno succedendosi nell’Italia ormai prossima allo scoppio della Seconda guerra mondiale.
«Egli m’andava spiegando che, nonostante una recente intesa di pace firmata con cerimonie grandiose dalle Potenze (dovevano essere stati questi, ora lo capivo, i famosi eventi internazionali cui Stella alludeva, origine dell’amnistia, e della sua libertà), la guerra mondiale, in realtà, era imminente, senza rimedio.»
Oltre a essere fuori dalla Storia – almeno inizialmente – ’Ntoni e Arturo sono calati in unarealtà che si ripete, giorno dopo giorno, sempre uguale a se stessa.
«Veramente nel libro della parrocchia si chiamavano Toscano, ma questo non voleva dir nulla, poiché da che il mondo era mondo, all’Ognina, a Trezza e ad Aci Castello, li avevano sempre conosciuti per Malavoglia, di padre in figlio, che avevano sempre avuto delle barche sull’acqua, e delle tegole al sole.»
Anche il meraviglioso finale dei Malavoglia richiama questo claustrofobico “eterno ritorno dell’uguale”:
«Ma il primo di tutti a cominciar la sua giornata è stato Rocco Spatu.»
Lo stesso è per Arturo. Mentre ha preso in cuor suo la decisione di lasciare per sempre l’isola, sottolinea come questa partenza non sconvolgerà affatto la routine della vita procidana.
«E d’un tratto, un rimpianto sconsolato mi si appesantì sul cuore, al pensiero del mattino che si sarebbe levato sull’isola, uguale agli altri giorni: le botteghe che si aprivano, le capre che uscivano dai capanni, la matrigna e Carminiello che scendevano nella cucina… Se, almeno, fosse durato sempre il presente inverno, malaticcio e smorto, sull’isola! Ma no, anche l’estate, invece, sarebbe tornata immancabilmente, uguale al solito.»
Non esiste progresso o evoluzione: il tempo è fermo. Di conseguenza sia il mondo di ’Ntoni che di Arturo profuma di antico, di primitivo, di vergine.
“Padron ’Ntoni sapeva anche certi motti e proverbi che aveva sentito dagli antichi: «perché il motto degli antichi mai mentì»”
Così, ad esempio, Arturo descrive le procidane: «Le donne, secondo l’usanza antica, vivono in clausura come le monache. […]. Esse non scendono mai alle spiagge; per le donne, è peccato bagnarsi nel mare, e perfino vedere altri che si bagnano, è peccato».
Simbolicamente, sia Aci Trezza che Procida rappresentano la fanciullezza, l’età solare dell’umanità. I bambini si muovono nel loro mondo fiabesco, lontano dalla Storia e dal tempo; il loro è un universo selvaggio e primitivo. Non è un caso, ad esempio, che Giacomo Leopardi, tra le sue varie riflessioni, paragonasse gli esuberanti fanciulli agli antichi.
«La mia infanzia è come un paese felice, del quale lui è l’assoluto regnante!»
Questo esclama il giovane Arturo parlando del padre e della sua infanzia spesa vagabondando tra i campi e le stradine dell’isola di Procida. Un «paese felice», idilliaco, simile al mondo degli antichi che, come Arturo, si nutriva di fiabe e di illusioni!
Purtroppo questo «paese felice» non è intoccabile perché un elemento esterno è sempre pronto a sconvolgere il suo precario equilibrio. Procida e Aci Trezza sono simili a degli organismi: deboli perché basta un agente che proviene dall’esterno a rompere la loro armonia interna.
L’elemento estraneo e perturbante per Arturo è rappresentato dalla matrignaNunziata. Non appena questa mette piede sull’isola, subito il giovane Gerace comincia a nutrire una profonda gelosia nei suoi confronti: un sentimento così forte che lo porterà a maltrattarla verbalmente a più riprese. Questa gelosia, però, col passare del tempo, si trasforma presto in amore ardente.
«E la sua bellezza era la mia persecuzione: anche quando mi trovavo solo, in tutte le ore della mia giornata, credevo di vedermela sventolare dinanzi agli occhi, come una bandierina bianca e celeste, celeste e oro, che intendesse provocarmi.»
Anche Nunziata è innamorata di Arturo ma la sua cieca fedeltà al marito, Wilhelm Gerace, farà sì che lei respinga ogni avances del figliastro. Ciò provoca in Arturo una folle rabbia che lo porterà ad allacciare un rapporto con un’amica della matrigna, Assunta, che lo inizierà al sesso.
«[..]; e cioè mi tornò alla mente che poco prima, nel momento che facevo l’amore con Assunta, avevo dovuto mordermi i labbri a sangue per non gridare un altro nome: Nunziata!»
Da questo momento in poi Arturo comincerà a pianificare la propria partenza dall’isola; la vita là ha perso del tutto il sapore che aveva un tempo.
Stessa cosa accade al giovane ’Ntoni: l’elemento disturbante è la sua partenza per la leva militare. Lui lascia, anche se momentaneamente, l’ “organismo-Aci Trezza”, volgendosi verso l’esterno.
«- Le belle ragazze di qui non sono degne di portargli le scarpe, a quelle di Napoli. Io ne avevo una colla veste di seta, e nastri rossi nei capelli, il corsetto ricamato, e le spalline d’oro come quelle del comandante. Un bel pezzo di ragazza così, che portava a spasso i bambini dei padroni, e non faceva altro.
- Bello stare deve essere da quelle parti! osservò Barabba.»
L’elemento perturbante ha sconvolto ’Ntoni il quale, una volta rientrato a casa, non riesce più a ritornare alla vita precedente, quella prima della sua partenza. Ed ecco, allora, l’inizio di un lungo ed inesorabile declino che lo porterà lontano dalla sua famiglia.
«Padron ’Ntoni, come il nipote gli arrivava a casa ubbriaco, la sera, faceva di tutto per mandarlo a letto senza che gli altri se ne avvedessero, perché questo non c’era mai stato nei Malavoglia, e gli venivano le lagrime agli occhi. […]. ’Ntoni restava a capo chino, o brontolava fra i denti; ma l’indomani tornava da capo, e una volta glielo disse: - Che volete? almeno quando non sono più in sensi non penso alla mia disgrazia.»
E alla fine, sia ’Ntoni che Arturo, lasciano la loro casa ed il loro mare per sempre. Sono cresciuti; l’elemento perturbante ha scombussolato la loro esistenza, ha strappato via il velo della loro innocente fanciullezza, li ha scaraventati nell’aridità della vita adulta, li ha imprigionati definitivamente nella Storia.
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Il loro addio finale è l’addio alla fanciullezza; la loro partenza è straziante ed inevitabile perché, una volta visto il crollo delle illusioni dell’età solare, non si può più tornare indietro per riviverli nuovamente.
«Garzoncello scherzoso,
cotesta età fiorita
è come un giorno d’allegrezza pieno,
giorno chiaro, sereno,
che percorre alla festa di tua vita.
Godi, fanciullo mio; stato soave,
stagion lieta è cotesta.
Altro dirti non vo’; ma la tua festa
Ch’anco tardi a venir non ti sia grave.» (Giacomo Leopardi, Il sabato del villaggio)
Per la prima foto, copyright: Martino Pietropoli su Unsplash.
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