I dolori di un non più giovane scrittore: Il monologo interiore e la patata
Il personaggio era lì. Si dimenava con i suoi fedeli auricolari bianchi conficcati nelle orecchie, ascoltando la canzone che lo scrittore aveva scelto per lui. Quella più adatta al suo stato d’animo, al suo carattere, alla sua giornata.
Tamburi che si affannavano a superare chitarre e a surclassare il piano. Le mani del protagonista che non riuscivano a stare ferme. Battevano il tempo l’una contro l’altra mentre la testa si muoveva su e giù, come quei ridicoli cagnolini di plastica con la testa oscillante che si trovano negli autogrill e in alcune detestabili auto.
E poi?
Cosa stava pensando il personaggio?
Lo scrittore non più giovane sapeva di essere arrivato a un momento topico, quello del monologo interiore, e non sapeva come scappare. Ci aveva già provato in passato: aveva letto tutta Virginia Woolf, aveva letto tutto James Joyce (temerario!) e poi aveva ricominciato daccapo. Ma per quanto insistesse e sottolineasse gli intoccabili testi dei due numi protettori dell’autoanalisi, appuntandosi ogni possibile spiraglio in quell’ignoto campo di battaglia, ogni suo tentativo era debordato in un andamento penosamente lento della narrazione, portando i suoi stessi personaggi a implorarlo per una morte, possibilmente rapida e violenta, pur di uscire da quel limbo.
Lo scrittore non più giovane era dunque passato alla sua raccolta di saggi sulla narrativa, poderosi volumi che pretendevano di insegnare a chiunque le regole del buon scrivere (regole che ovviamente cambiavano in funzione della corrente di pensiero, nonché del lato dell’oceano su cui erano concepite). A chiunque avesse avuto voglia di leggerli, e soprattutto a chiunque avesse avuto abbastanza forza nel braccio per spostarli dalla libreria alla scrivania.
Muovendosi fra lo strutturalismo praghese e il formalismo russo con la sicurezza di un’antilope zoppa, lo scrittore non più giovane era ritornato al punto di partenza. Cosa stava pensando il personaggio? E soprattutto: cosa era giusto che pensasse? E ancora: fino a quando avrebbe potuto costringere quel povero personaggio a ballare con le cuffie nelle orecchie, ascoltando in loop lo stesso pezzo per ore, senza pensare assolutamente a niente?
Lo scrittore non più giovane iniziava a demoralizzarsi, ma in questo non c’era nulla di nuovo: per questo era diventato scrittore. Tutto stava a farsi cullare in quella sorta di autocommiserazione, quel tanto che gli avrebbe permesso di inciampare in una nuova idea e non oltre il limite di una nuova seduta di psicoterapia.
Fu in quel momento che lo scrittore non più giovane si alzò dalla sua sedia anatomica arancione esclamando a piena voce (con la stessa incredulità e speranza che era stata concessa al marinaio che avvistò la terra dopo la prima traversata dell’Atlantico): “La patata di Bloom!”
Ecco quello che ci voleva! Doveva trovare la sua patata. Che detto così potrebbe sembrare alquanto scabroso, sebbene un altro scrittore non più giovane non si sarebbe neanche posto il problema. Cos’era che faceva grande l’Ulisse di Joyce? La capacità di rendere affascinante ogni avvenimento banale con cui viene in contatto Leopold Bloom, un agente di pubblicità ebreo che va in giro con in tasca una patata e, mentre sta uscendo di casa la mattina, ripercorre mentalmente tutto quello che per lui è necessario avere. Il lettore lo legge, il lettore è dentro la sua testa e continuamente ne viene spinto fuori da Joyce, per poi ritrovarsi intrappolato nelle elucubrazioni di Leopold Bloom senza nemmeno rendersene conto. Gli occhi dello scrittore non più giovane erano diventati molli, erano d’acqua. La sua mente gli aveva fatto ricordare la perfezione, illudendolo che fosse possibile. Doveva scrivere, ecco sì, doveva ricominciare subito a scrivere. Il personaggio era lì…
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