I diari di Nijinsky, tra danza e follia
Vaslav Nijinsky: uno dei nomi più importanti della storia della danza. A soli diciotto anni entrò nella compagnia del teatro Mariinskij, incontrò Sergej Djagilev e iniziò a girare il mondo. Ancora giovanissimo si esibì sulle coreografie di Michel Fokine e sulle musiche di Tchaikovskij, fino a produrre tre balletti suoi: Il pomeriggio di un fauno su musica di Debussy, Jeux e la Sagra della Primavera su musica di Stravinskij. Un genio, un talento, un fuoco inestinguibile, una passione e una presenza scenica senza eguali. Ma cosa si celava dietro questa personalità bizzarra, stravagante, eccentrica eppure così fragile? Schizofrenia, paranoia, esaurimenti nervosi. Follia.
Tra il 1918 e il 1919, in attesa della fine della guerra, Nijinsky tenne un diario, pubblicato in Italia da Adelphi nella traduzione di G. Luzzani. Scriveva per ore e ore al giorno, senza pause, in maniera febbrile e compulsiva, fino allo stremo. Le pagine manoscritte mostrano un Nijinsky nel punto culminante della sua malattia mentale; sapeva che qualcosa di straordinario stava accadendo nel suo cervello, ma non sapeva se ciò significasse che egli era Dio, o che era solo un uomo pazzo, abbandonato da Dio.
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Nijinsky era un genio: ruppe con la tradizione e con la simmetria, nella vita, nella danza e nelle coreografie, per spingersi oltre, indagare il brutto e l’amoralità e approdare a una nuova concezione del bello e del vero. Come ballerino, e come coreografo, rifiutò l’idea di danzare sulla musica, preferendo danzare attraverso la musica, o addirittura contro la musica. Il suo interesse per le unità base del movimento, per la primitiva ed erotica essenza della danza, lo spinsero alla ricerca di una precisione non affettata, al contrario estremamente semplice e carica di energia sessuale, arrivando al punto di immaginare i suoi ballerini, e se stesso, come un rilievo su un’urna greca; niente più braccia sinuosamente ed elegantemente incurvate. Le braccia sarebbero state tese, rigide, sarebbero spuntate dal corpo come rami, con i palmi rivolti verso l’alto e immobili.
È chiaro come la follia di Nijinsky fosse strettamente connessa con la sua genialità. Nella sua pazzia inventò la danza moderna, condusse la sua vita come uno spettacolo erotico, istintivo, libero, e seppe catturare il ritmo emergente di un mondo che stava andando incontro alla Prima guerra mondiale.
Il 29 maggio 1913 il balletto di Nijinsky, Le Sacre du Printemps, aprì la stagione al Théâtre des Champs-Elysées. Tutti erano presenti (tra i personaggi più importanti: Cocteau, Apollinaire, Stravinsky), e tutti hanno lasciato delle testimonianze su quello che accadde poco dopo l’inizio dello spettacolo: le urla di sdegno degli spettatori furono talmente forti che divenne impossibile sentire l’orchestra suonare. Le signore se ne andarono disgustate, gli uomini rimasero, lanciando i programmi in aria e contro i ballerini, urlando a più non posso, battendo i bastoni da passeggio sulle poltrone.
Nijinsky rimase seduto nella sua poltrona senza scomporsi: genio dissacrante, uomo di un altro mondo, quasi un veggente, un profeta dei tempi cacofonici che sarebbero venuti.
Dalle pagine del diario emerge la figura di un uomo pieno di dolore, di sofferenza, ma anche di esuberanza e di vitalità, di ingegno e di inesauribile creatività, brillante e fondamentalmente solo nella sua follia. Leggere il suo diario è come leggere un romanzo moderno: frammentario, spezzato, talvolta privo di punteggiatura, a tratti difficile da seguire. È un flusso di pensieri che si riversa sulla pagina senza mediazione, dalla mente alla carta.
È un dialogo con la moglie, Romola, sempre presente e al suo fianco, sempre preoccupata per la sua salute fisica e mentale, la donna che gli starà accanto fino alla morte e che si occuperà in seguito, secondo volontà di Nijinsky, di pubblicare i Diari.
«Io amo mia moglie tanto quanto il genere umano, e le auguro la medesima felicità. Mia moglie teme per me, perciò trasferisce su di me le sue paure. io non ho paura, avendo sperimentato il terrore della morte vicino a un precipizio. Nessuno voleva uccidermi, e un albero mi ha salvato.»
Ed è anche un continuo dialogo con e su Dio, un Dio che a tratti sembra impossessarsi di lui, infondendogli la forza vitale di creare e di produrre, e a tratti sembra abbandonarlo a se stesso e alle voci nella sua testa.
«Non essendo Dio, non posso giudicare gli uomini, sarà Dio il giudice e non le leggi degli uomini, che puniscono le persone per i loro errori. Giudice è Dio, non la gente. Io sono un uomo in Dio. Io parlo con le parole di Dio.»
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Chiuso nel suo studio, ogni notte fino all’alba, Nijinsky scriveva la stessa identica cosa decine di volte, in una ripetizione compulsiva e folle. Disegnava occhi, occhi ovunque. A volte anche ragni, sul suo quaderno o sui suoi libri, oppure la faccia di Diaghilev, padre dei Balletti Russi, suo amante, suo benefattore e suo nemico. Ma soprattutto disegnava occhi: occhi neri, occhi rossi, talvolta talmente calcati da strappare il foglio.
«Io mi accorgo che dopo aver scritto per un pezzo ho gli occhi iniettati di sangue. Io non scrivo per mio piacere – non può esserci piacere quando si passa tutto il tempo libero a scrivere. Si deve scrivere moltissimo per essere in grado di capire che cosa significa scrivere. È un’occupazione difficile – ci si stanca di star seduti, con i crampi alle gambe, il braccio irrigidito. Rovina gli occhi e non si prende abbastanza aria. Con una vita del genere un uomo fa presto a morire. Quelli che scrivono moltissimo sono dei martiri.»
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