I cuori spezzati del “distretto” di Claudia Dey
La casa editrice Black Coffee propone, con la traduzione di Marina Calvaresi, il romanzo Heartbreaker, della scrittrice canadese Claudia Dey.
Ci ritroviamo così nel «distretto», un luogo nel bel mezzo del nulla, a tremiladuecento chilometri dalla civiltà. Un paesaggio montano, cinquemila chilometri di foresta, ottantotto bungalow, una strada – la «statale nord» – che «taglia la città come una linea retta» e una cisterna nella quale la strada conclude il suo corso. E qui, dove la terra finisce, appena trecentonovantuno abitanti.
Ma il «distretto» è un luogo strano dove anche il tempo va per conto suo. È il 1985 – più o meno – ed è in un passato imprecisato che i Padri fondatori, giunti con un autobus rubato, danno vita a una comunità con delle regole altrettanto strane. In questa realtà anni Ottanta, alla fine del mondo contemporaneo, gli uomini si rasano a zero mentre le donne sfoggiano chiome lunghissime. Hanno tutti un lettino solare in tavernetta e un furgone nel garage.Le donne indossano tute da casa o da esterni mentre gli uomini indossano soprannomi che, affibbiatigli da giovani, li caratterizzano per tutta l’esistenza: Piombo, Sexcafé, Verdone Bollente, Dito di Pelo, Forcella, Tagliola... I cani sono solo bianchi, femmine e senza nome. C’è la Giornata delle Consegne, una volta al mese, e il «senso di abbondanza» della mattina successiva; c’è la Giornata Gratis, «all’insegna del rotto, dell’indesiderato, del visto e piaciuto». E quando muore qualcuno d’inverno – quando il terreno è ghiacciato e non lo si può scavare – il cadavere sverna nel capanno del Signor Morte, fino al giorno dell’ultimo Riposo nella Sala Banchetti, la stessa sala del prelievo del sangue «a nove dollari e cinquanta la sacca».
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A introdurci il «distretto» è l’adolescente Pony Darlene Fontaine con il suo stile frettoloso ma preciso in tutto ciò che descrive e che vuole farci conoscere. Se fosse il personaggio di un film, probabilmente, guarderebbe spesso in macchina e con fare sbrigativo ci inviterebbe a guardare e ad ascoltare, o meglio ancora, ci richiamerebbe all’attenzione: «Lascia che ti spieghi una cosetta o due: uomini, donne, bambini, fucili carichi. I cuori si fermano. Cani, furgoni, l’inverno, scopate. I cuori si spezzano».
La madre di Pony, Billie Jean – come la canzone di Michael Jackson, uno dei tanti rimandi agli anni Ottanta, disseminati qua e là –,è fuggita. È uscita di casa con «lo sguardo spento e la pelle del colore della nicotina» e non è più tornata. Billie è l’unica persona a conoscere il mondo esterno perché è da lì che tanti anni prima è arrivata nel «distretto». Di lei e del suo passato Pony non sa nulla, come non ne sa nulla anche il marito Piombo. Billie Jean non è neanche il suo vero nome.
Le ultime parole rivolte alla figlia, «ti avevo del tutto dimenticato», rimbombano come un macigno nella testa della giovane Pony. La ricerca disperata della donna si alterna ai ricordi del passato, alle cose non dette, ai segreti, al rimedio del “trucco materno”, al dolore, alla morte. Si affrontano le relazioni tra genitori e figli. Si scava nelle ferite aperte e mai rimarginate oppure scomparse solo superficialmente, dietro una lunga barba o sotto un filo blu da cucito. Soffochiamo tutti, lettori e personaggi, stretti nel raggio dei quindici chilometri in cui si svolge la vita del «distretto». Le frasi spezzate, le liste di cose, i passaggi repentini da un evento a un altro, da un tempo a un altro, ma anchele tre voci narrantisono la forza della scrittura di Claudia Dey. Billie Jean, pur svanendo nel nulla dopo poche pagine, è la presenza più viva e in primo piano di tutto il romanzo. Quel “tu” a cui si riferisce Cane nel cuore della narrazione, ossia nella seconda delle tre parti in cui è diviso il racconto, è proprio lei. Lei che è la protagonista indiscussa.
Hearthbreaker ha una scrittura originale nonché un intreccio elaborato e accattivante. L’autrice sa gestire in maniera impeccabile il tempo della storia e il tempo del racconto e lo fa giocando con il linguaggio. Il racconto alla seconda persona singolare è la parte più intensa di tutto il libro.
Di romanzi che “danno del tu” la letteratura non è piena, anzi. Non sono molti gli autori che scelgono di narrare in seconda persona e tra i più interessanti sicuramente ci sono Jay Mcinerney con Le mille luci di New York e Tom Robbins con Beati come rane su una foglia di ninfee. Nel romanzo della Dey la tecnica è molto apprezzata in particolare perché l’io narrante è un animale ma soprattutto perché posto così al centro, questo capitolo, che poggia le basi per il terzo in cui tutti i nodi vengono sciolti, ha una grande forza comunicativa. «Quand’è cominciata, Billie Jean? Che cos’è andato storto, Billie Jean?» si domanda Cane in tutto il suo sconforto.
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Il lettore potrebbe aggiungere “che fine hai fatto Billie Jean?” ma ovviamente sa che per rispondere a queste domanda deve continuare la lettura e ormai, giunti alla seconda parte del racconto, sa anche che le pagine voleranno via velocemente. Heartbreaker forse fatica un po’ a partire – bisogna abituarsi al tipo di scrittura di Claudia Dey – ma una volta partiti non ci si ferma più.
Per la prima foto, copyright: Spring Fed Images su Unsplash.
Per la terza foto, la fonte è qui.
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