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I classici ci insegnano ad amare

Martino Menghi, Batte il mio cuoreÈ possibile imparare ad amare? Secondo Martino Menghi, la risposta è sì. E i classici sarebbero degli insegnanti importantissimi, se usati con cautela.

Docente di didattica del latino e di storia del pensiero antico all’Università di Pavia, Martino Menghi ha di recente pubblicato Batte il mio cuore (Giunti editore) in cui propone un viaggio affascinante nella letteratura e nella cultura greche e romane, presentando, alla nostra attenzione, diversi modelli di amore, quasi paradigmatici di altrettanti modi di intendere la vita e il rapporto con l’altro.

 

Batte il mio cuore propone una rilettura di autori greci e latini in relazione al tema dell’amore. Cosa si può apprendere su questo sentimento attraverso il riferimento a tòpoi narrativi classici?

Direi che gli autori che abbiamo preso in esame ci offrono una serie di “rappresentazioni” dell’amore in cui, nel bene e nel male, ci riconosciamo ancora. Già nei poemi omerici si passa dall’amore inteso come possesso di un corpo e di un’anima ottenuto con la violenza (la bella Briseide rapita da Achille nel corso di un saccheggio) a quell’esperienza sublime e insieme narcisistica che Ulisse vive con Calipso, per finire con la celebrazione dell’amore coniugale dell’eroe greco e di Penelope. Tre rappresentazioni diverse, nessuna delle quali, comunque, ci lascia indifferenti. E che cosa dire di quell’intima sofferenza di Saffo per essere lontana dalla fanciulla amata, riproposta da Catullo sotto forma di risentita gelosia verso un suo presunto rivale? O dell’orgoglio ferito di Orazio perché la bella Neéra lo tradisce? Sono tutti sentimenti che non ci sono certamente estranei. Se poi prendiamo Platone, è interessante vedere la sua doppia concettualizzazione dell’amore: principio della vita, forza capace di straordinarie prestazioni se ben diretta, ma d’altra parte pulsione distruttiva per eccellenza come ci mostra il filosofo attraverso il tratteggio dell’uomo tirannico, schiavo di quella passione e quindi del denaro e del potere necessari perché essa possa essere soddisfatta. Insomma, ecco solo qualche archetipo di questa esperienza vitale che ci offre non pochi spunti di riflessione.

 

Il libro analizza varie modalità di intendere l’amore, ma la loro descrizione può essere funzionale a verificare la considerazione della donna nelle diverse epoche della storia greca e romana. Si può ritenere che esista un legame tra l’idea prevalente dell’amore (almeno nella letteratura) in un determinato momento storico e la connotazione sociale della figura femminile?

Sì, ma solo in parte. La donna è di certo una delle grandi escluse della società greco-romana, lungo tutta la sua storia. Da lei ci si aspetta che procrei, educhi i figli e obbedisca all’autorità del marito o del padre, come ricordava il moralista Giovenale. Ma questo vale come regola generale. La grande letteratura non solo ci mette a parte di una serie di donne che storicamente hanno assommato in loro uno straordinario potere – si pensi a Messalina o ad Agrippina Minore negli Annali di Tacito – ma anche delle incredibili prestazioni, della forza, del coraggio di cui essa è capace.

L’Arianna di Catullo aiuta Teseo a uccidere il Minotauro, il suo mostruoso fratello; per amore dell’eroe straniero abbandona la famiglia e fugge con lui, e una volta abbandonata si dispera, ma non soccombe, bensì reagisce lanciandogli profetiche maledizioni. Più sottile, ma ancora più travolgente è la vicenda della Didone virgiliana. Anch’essa si dà per amore a Enea, gli offre lo scettro, vorrebbe dargli dei figli, ma anch’essa viene abbandonata e finisce col togliersi la vita. Questo personaggio, se è l’icona della generosità femminile è anche e soprattutto un grandioso exemplum del male di cui è capace un fato indifferente alla sofferenza umana. Attraverso di lei Virgilio pone dei solenni interrogativi al lettore, oltre che a se stesso: come può essere considerato provvidenziale un fato che nel suo cammino si nutre di tanto dolore? Alias, erano proprio necessarie tutte quelle vittime di cui è costellato il mito di Enea, anticipazione e rispecchiamento della storia di Roma? La vicenda di Didone è insomma centrale nella riflessione del poeta-filosofo che attraverso di lei, come di altri innocenti, sembra approdare a posizioni scettiche. E in ambito greco, pensiamo alla Medea di Euripide, barbara e maga, oltre che donna, e quindi doppiamente esclusa per quella cultura; di più, capace del più orrendo dei crimini, la soppressione dei suoi figli: eppure, più grande di Giasone, bensì maschio, greco e destinato al regno, ma cinico e calcolatore, e del tutto immemore dei tanti sacrifici che lei ha compiuto in nome del loro amore. Si assiste spesso nella letteratura greco-romana a una rappresentazione della figura femminile che contrasta in maniera vistosa con la condizione di grande esclusa in cui essa è relegata sul piano sociale.

 

Premesso che non è possibile ricondurre a un’immagine unica l’amore antico, come lei stesso lo definisce, possiamo provare a tracciare degli elementi che, conservando una certa attualità, risultano utili ancora oggi?

Senz’altro la rappresentazione omerica dell’amore come possesso di una persona seducente che si intende acquisire e conservare a ogni costo. Per quanto si tratti di una figura esecrata dalla nostra cultura, non finiamo di leggere di stupri, di rapporti violenti, di omicidi passionali. E che dire della resistenza di Ulisse e Penelope? Non sono forse giunti fino a noi come un archetipo dell’amore coniugale, attraversato nella sua durata da continue difficoltà? Ovidio poi ci ha consegnato una precettistica dell’arte della seduzione che non finisce di stupirci per quanto sia ancor oggi vera, attuale. Tacito infine, attraverso la sua galleria di grandi e piccoli miserabili dell’età giulio-claudia, ci mette a parte di quel nesso sinergico che esiste tra amore, desiderio di ricchezza e di potere fino al crimine, che non solo aveva fornito a Platone argomenti sulla natura inquietante dell’eros, ma che ritroviamo come uno schema inossidabile in ogni epoca, compresa la nostra.

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Martino MenghiDa Platone in poi, quello che colpisce è il tentativo di porre un freno all’eros. Quanto ha inciso in queste prospettive quella che, in un altro saggio, lei ha analizzato come etica della temperanza?

Platone con la sua tripartizione dell’anima compie una delle operazioni filosofiche più affascinanti della storia della cultura. Riconoscendo il male come insito in noi, e individuandone l’origine soprattutto nella natura inquietante dell’eros, egli procede a una sorta di contenimento di questa passione attraverso l’alleanza dell’anima razionale e di quella collerica che insieme sono chiamate a governarla. Viene così teorizzata l’etica della temperanza e con essa la possibilità di educare il soggetto a non essere travolto dalle sue pulsioni negative. E si tratta di un lascito che ha attraversato i secoli fino a essere sviluppato all’inizio del secolo scorso da Freud con la sua teoria dell’apparato psichico.

 

La sua attività professionale l’ha condotta a insegnare nei licei e all’università, quindi a contatto con diverse generazioni di studenti. Com’è cambiato l’approccio ai classici nel corso degli anni? E quanto la loro lezione riesce ancora a fare presa sui giovani?

La risposta è molto semplice. Tutto dipende da chi li mette a contatto con i classici. Essi infatti possono risultare molto faticosi se affidati a un’interpretazione scolastica fondata su una griglia di esercizi di comprensione, di analisi, di produzione, che li depaupera progressivamente del loro fascino. Ma se l’insegnante si svincola da questa impostazione e riesce a trasmettere agli studenti la ricchezza che essi racchiudono e che parte proprio dalla lingua e dallo stile – si pensi alla forza delle immagini con cui Orazio ci invita a godere del presente – per arrivare alle implicazioni filosofiche del loro messaggio e alla loro fortuna nel tempo, allora le cose cambiano in modo radicale. Gli studenti si appropriano di questo entusiasmo e ti seguono con interesse. Chiaramente la lettura e l’interpretazione dei classici non può che fondarsi su una padronanza ampia e profonda della nostra cultura, perché dopotutto siamo noi con la nostra sensibilità e i nostri problemi a interrogarli e a cercare risposte. Ma per tutto questo ci vuole tempo. In questo senso, personalmente mi sono reso conto che come insegnante miglioravo col passare degli anni e l’acquisizione di conoscenza. 

 

Attualmente è impegnato in un progetto di promozione della lettura nel carcere di Opera, a Milano. Quali benefici può portare la lettura a chi trascorre un periodo di detenzione in carcere? E che lettori sono i detenuti?

Direi molto importanti. Sto guidando assieme a una psicologa un seminario sulle emozioni, e siamo proprio partiti da Platone per passare poi attraverso Lucrezio e uno stoico come Seneca in vista di dedicarci a pensatori e autori più moderni. Ci rendiamo conto che stiamo dando loro una sorta di grammatica dei sentimenti che evidentemente non hanno avuto. Adesso, per esempio, stanno producendo dei testi su un tema cruciale: il male è insito in noi come voleva Platone e dobbiamo tenerlo a freno educandoci, oppure, come sostenevano gli stoici, proviene dall’esterno attraverso le sollecitazioni negative di un mondo corrotto? Problemi cui certamente la maggior parte di loro è molto sensibile.


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