I cappelli magici di Amélie Nothomb
È l’estate del 1964, Patrick Nothomb ha ventotto anni ed è già console per il suo Paese (il Belgio) a Stanleyville nel neo-indipendente stato del Congo. Mancano pochi giorni alla rivolta capitanata da Christophe Gbenye che rivendicò l’autonomia dei territori dell’est, proclamando la Repubblica popolare del Congo. Una delle conseguenze di quella rivolta sarà la cattura di millecinquecento bianchi che abitavano a Stanleyville, diventati ostaggi per fare pressione sui loro Paesi affinché riconoscessero la neo-repubblica. È da qui che prende le mosse Primo sangue (tradotto da Federica Di Lella – Edizioni Voland), il trentesimo romanzo di Amélie Nothomb, dedicato alla figura di suo padre (Patrick), recentemente scomparso per Covid.
Con il suo stile inimitabile e la capacità di illuminare una scena con un particolare che chiunque altro avrebbe trascurato, Amélie Nothomb si conferma una grande scrittrice, capace di trasformare un insieme di ritagli di ricordi indiretti in un mémoire di un giovane uomo che fronteggia la morte in forma di plotone d’esecuzione per essersi trovato al posto sbagliato nel momento sbagliato.
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Patrick è stato appena nominato console e il suo primo incarico in terra straniera si trasforma presto in un incubo, in cui la vita di centinaia di persone dipende dalla sua capacità oratoria. Più a lungo riuscirà a portare avanti la trattativa con i ribelli, lasciando sul piatto la possibilità di un riconoscimento da parte del Belgio della loro indipendenza, più a lungo vivranno gli ostaggi. Ma se un altro autore avrebbe incentrato su questo evento realmente accaduto l’intero romanzo, Amélie Nothomb ne fa solo stratagemma per indagare su chi sia quel giovane uomo. Inizia così un salto nel passato che ci fa incontrare il piccolo Patrick, orfano di padre dall’età di otto mesi, che si ritrova a crescere in una famiglia dell’aristocrazia belga del primo Novecento, con una madre incapace di dargli l’amore che lui desidera più di ogni altra cosa e una nonna che lo soffoca di attenzioni. Patrick cresce nell’agiatezza, fra abiti cuciti su misura e prelibatezze gastronomiche, nella certezza che potrebbe avere tutto ciò che la sua mente desidera, tranne gli affetti delle persone.
La vita di Patrick è destinata a cambiare drasticamente quando entra in contatto con la banda dei Nothomb, la famiglia paterna che vive nelle Ardenne in un castello scalcagnato in cui il cibo non basta mai e freddo e sporcizia sono compagni di cui non si può fare a meno.
Inizia così un romanzo di formazione narrato in prima persona, in cui Nothomb ci apre le porte di un mondo antico nel quale nobiltà di parola e d’animo hanno ancora un valore. Fra composte di rabarbaro, corse fra i boschi e gare a chi si accaparra l’ultima fetta di pane, Patrick scopre che la ricchezza interiore ed esteriore non viaggiano sempre di pari passo, capendo cosa vuol dire essere percepito come un ragazzo qualsiasi.
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I racconti delle giornate al castello di Pont d’Oye rimarranno nei cuori dei lettori, che finiranno questo viaggio nel passato dei Nothomb delusi dalla sua brevità, chiedendosi perché, a un certo punto, l’autrice abbia deciso di accelerare il passo narrativo, comprimendo decenni della vita di Patrick Nothomb in poche pagine. Peccato perché avremmo voluto sapere di più di questo ragazzo che ha vissuto tanto in così poco tempo, anche grazie alla capacità di sua figlia di zoomare su singole giornate, come fossero cappelli magici da cui far sbucare torrenti di storie sepolte, le stesse che circondano noi e le nostre famiglie e che spesso ignoriamo. Forse è proprio in questa capacità di osservazione che si nasconde l’arma segreta di Amélie Nothomb, più delle quattro ore al giorno che dedica alla scrittura, dell’orario in cui lo fa (dalle quattro alle otto del mattino) o da cosa indossa mentre scrive (una tutona arancione), senza dimenticare la capacità di far esplodere queste storie nella direzione che preferiscono.
Per la prima foto, copyright: Jay Monty su Unsplash.
Per la terza foto, la fonte è qui.
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