“I cani di Raffaello”. La bellezza può ancora salvare il mondo? Incontro con Carlo Vanoni
I cani di Raffaello (Solferino, 2021) è il primo romanzo scritto da Carlo Vanoni, critico d’arte già autore di saggi come Andy Warhol era calvo (2016), A piedi nudi nell’arte (2019) e Ho scritto t’amo sulla tela (2020), con i quali si propone di avvicinare il grande pubblico alla comprensione dell’arte, e in particolare dell’arte contemporanea, spesso meno conosciuta e apprezzata dai non addetti ai lavori rispetto ai capolavori del passato. Curatore di mostre, presentatore di trasmissioni televisive, autore di video molto seguiti su YouTube e di spettacoli teatrali, Vanoni si avvicina ora alla narrativa, anche se I cani di Raffaello è un testo ibrido, in cui una storia precisa si intreccia a numerose divagazioni sul mondo dell’arte.
Protagonista è infatti Raffaello un professore cinquantenne che tiene un corso di arte contemporanea all’università di Venezia, la cui vita è stata sconvolta pochi mesi prima da una tragedia familiare: Matteo, il figlio ventenne della sua compagna Rosaria, è stato brutalmente aggredito per futili motivi in un parcheggio e picchiato da tre energumeni che l’hanno lasciato quasi in fin di vita, e da mesi giace in coma in un letto d’ospedale.
Raffaello, un uomo normalmente tranquillo ed equilibrato, non riesce a condividere la rassegnazione di Rosaria, preoccupata solo di un possibile recupero del figlio, e si scopre animato da cupi propositi di vendetta: vorrebbe rintracciare i tre aggressori di Matteo per punirli di ciò che gli hanno fatto. Chiede aiuto a Giulio detto il Colombiano, ex marito di Rosaria e padre di Matteo, nonché vecchio amico di Raffaello dal passato non proprio limpido, ma il suo progetto avrà uno sviluppo imprevedibile.
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Carlo Vanoni ci ha parlato del suo romanzo in uno spazio espositivo milanese dove era ospitata una delle mostre di BienNolo, rassegna d’arte contemporanea che organizza già da qualche anno a Milano, in una cornice perfettamente intonata al tema di I cani di Raffaello.
Perché ha deciso di scrivere un romanzo dopo aver pubblicato diversi saggi di successo?
M’interessa portare l’arte contemporanea a tutti: un saggio finisce in libreria nel reparto “arte”, ma se non vai a cercarlo non lo leggi, mentre un romanzo esposto in mezzo alle altre opere di narrativa ti permette di acquisire un pubblico che magari non andrebbe mai nel reparto “arte”. Da trent’anni inseguo la mia idea di aggiornare il software dell’arte, che in realtà è molto datato, come un computer comprato qualche decennio fa: se io faccio i nomi di qualche artista che ha operato negli ultimi settant’anni, esiste il rischio che non li conosca nessuno. Bisogna aggiornare il software e riempire questo vuoto, cosa che cerco di fare con gli spettacoli teatrali, con le mostre che organizzo, con i libri.
In questo momento siamo in mezzo a una mostra della rassegna BienNolo, dedicata appunto all’arte contemporanea, che organizzo da qualche anno nel quartiere emergente di NoLo (acronimo per Nord Loreto, ndr), la zona di Milano dove abito.
Ho pensato che con una trama un po’ intrigante come quella di questo romanzo potrei sperare di avvicinare più persone al mondo dell’arte, anche se chi non è particolarmente interessato a tale aspetto può sempre limitarsi ad apprezzare la narrazione.
A me è sempre piaciuto scrivere, ma nel saggio non è richiesta una grande scrittura: chi lo legge vuole soprattutto avere delle informazioni nel modo più chiaro possibile, ma non c’è un’estetica della parola come in un romanzo. Qui ho potuto prendermi delle licenze poetiche che in un saggio non sono richieste.
Io amo molto Bruce Chatwin, uno scrittore che appena arrivava a stabilirsi in un luogo avvertiva l’esigenza di ripartire, e mi sento esattamente come lui. Ho la tendenza a uscire dalla mia confort zone: nel mondo dell’arte ero a posto e i miei saggi andavano bene, ma ho avvertito l’esigenza di provare altro.
Il tema della violenza è molto attuale. Il professore ha sempre pensato che la bellezza e l’arte potessero migliorare il mondo, ma entra in contatto con la violenza e si rende conto che esiste una parte dura della vita. Perché?
Tutto è nato dalla frase «la bellezza salverà il mondo». Nel libro la pronuncia la dottoressa che si occupa di Matteo in ospedale, ma Raffaello non è assolutamente d’accordo. Casomai pensa che sia la bellezza a doversi salvare dal mondo. Considerando quanta bellezza abbiamo in Italia, dovremmo essere un paese di santi, mentre la violenza dilaga qui come altrove: ogni giorno leggiamo notizie di atti di violenza, spesso commessi per motivi assolutamente futili e la mia sensibilità mi porta a interessarmi a queste vite che si spezzano più che ad altri temi.
L’arte ci invita a emozionarci, ma Raffaello si trova a combattere tra emozione e ragione. L’arte minimalista di cui si occupa, in ogni caso, non suscita il tipo di emozioni che possiamo provare guardando la Cappella Sistina: in questo libro cerco di spiegare il nostro approccio all’arte di oggi, di fornire qualche risposta portando per mano il lettore, tramite la narrazione, nel mondo dei linguaggi contemporanei.
Alla vicenda di Raffaello s’intreccia la storia d’amore di due artisti minimalisti operanti in America negli anni Ottanta, Féliz González-Torres e il suo compagno Ross Laycock, storia da lei portata anche in palcoscenico. Perché è importante per lei questa vicenda?
Ho fatto uno spettacolo teatrale che s’intitola L’arte è una caramella, scritto nel 2014 e portato spesso in giro, che parte dal mucchio di caramelle che costituiva un’opera di González-Torres: settantanove chili di caramelle, corrispondenti al peso del compagno Ross Laycock prima che si ammalasse e poi morisse di AIDS. Ho sentito molto il problema dell’AIDS perché, essendo nato a metà degli anni Sessanta, ho vissuto l’adolescenza e la prima giovinezza proprio negli anni in cui l’AIDS ci terrorizzava.
Il pubblico poteva prendere una caramella, così che il mucchio era destinato a calare, esattamente come il peso di Laycock consumato dalla malattia.
Ho inserito nel romanzo questa storia per poter introdurre un po’ il lettore nella New York degli anni Ottanta, una città piena di vitalità e di esperienze artistiche. Il professore racconta la storia ai suoi studenti per spiegare loro che nella vita quello che conta è avere un’urgenza, una passione, qualcosa che non puoi trattenere. Quando non hai un’urgenza da soddisfare, rischi di soccombere alla violenza.
Quale è stata la prima opera d’arte da cui ricorda di essere stato emozionato in modo profondo?
Un quadro di De Chirico. Vivevo a Düsseldorf, ero da solo come un cane in un posto in cui pioveva sempre e una domenica in cui non sapevo cosa fare sono entrato in un museo, ho visto una Piazza d’Italia di De Chirico, e quella visione mi ha cambiato la vita. E poi le caramelle di González-Torres, naturalmente.
C’è una parte molto interessante del libro in cui si fa una distinzione tra “fotografia” e “immagine”. Siamo nel mondo dell’immagine, ogni giorno ne vediamo e ne riceviamo migliaia, ma al novantanove per cento si tratta di immagini destinate a sparire senza lasciare traccia. Paradossalmente, l’ultima generazione avrà pochi ricordi rispetto a quando si conservavano per decenni le fotografie stampate su carta?
Sì, succede la stessa cosa con la musica. Io sono cresciuto con i grandi LP, al cui interno trovavi oltre al disco vero e proprio foto, testi delle canzoni e altro, poi è arrivato il CD che ha rimpicciolito tutto, ma adesso siamo alla musica immateriale. Lo stesso avviene con le immagini, ma nonostante tutto io non sono catastrofista. La storia dell’arte insegna che ci sono sempre cambiamenti, perciò non so dove ci porteranno i mutamenti in corso. Magari potranno essere migliori, chissà.
Del resto, i social si stanno evolvendo e non sappiamo nemmeno per quanto tempo dureranno così come sono ora, ma anche altre cose, come la televisione, sono in mutamento: in Italia la TV era nata per educare e divulgare un buon italiano, pensate al maestro Manzi, e adesso diffondono soprattutto un linguaggio povero e sgrammaticato. C’è una deriva generale e vedremo come finirà. Anche i libri di carta, tutto sommato, stanno resistendo agli ebook.
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Lei ha parlato di urgenza che se non indirizzata verso un obiettivo può diventare violenza. Ma come si fa ad evitarlo?
Una volta avrei risposto che può salvarci la scuola. A Philadelphia tempo fa si chiedevano come affrontare il problema della violenza e hanno pensato di affidare agli artisti una parte della città, quella più degradata. Il fatto che le persone uscissero di casa e andassero a vedere gli artisti al lavoro era un deterrente alla violenza: è difficile che accadano atti criminali in pieno pomeriggio in Corso Vittorio Emanuele, ma come si fa con certi angoli oscuri di periferia? Vicino a casa mia c’era una strada con un grande muro cieco che è diventato un magnifico murale di quattrocento metri quadri: fare queste cose in periferia potrebbe forse salvare certi quartieri dal degrado.
La scuola adesso ha seri problemi: quando andavo a scuola, se prendevo un brutto voto mia madre quasi mi menava, mentre adesso i genitori vanno a picchiare i docenti. Penso soprattutto che i genitori dovrebbero continuare a fare i genitori, e non fare le stesse cose che fanno i loro figli sedicenni. Se osservate i profili Instagram di una madre e una figlia, è facile che le vediate fare le stesse cose e diventa complicato stabilire gli ambiti.
Quello che manca oggi è il simbolico. Oggi viviamo secondo lo schema stimolo-risposta come gli animali. Spesso i giovani non sembrano rendersi conto della portata delle loro azioni.
La storia dell’arte è popolata anche di grandi storie personali e molte riguardano la vendetta. C’è qualche influenza da queste storie oppure il libro nasce da un sentimento personale?
No, è una storia che avevo in mente di raccontare da tempo e non si rifà in modo particolare all’arte, anche se naturalmente, dato il mestiere che faccio, può esserci stata qualche influenza un po’ inconscia.
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