Ho tanta fede in te. Amore e miracoli in Antonia Pozzi ed Eugenio Montale
La letteratura è fatta soprattutto di richiami, di echi dal passato che attraversano il silenzio del tempo e ritornano a vivere sulle pagine del presente. La letteratura nasce sempre da influenze: consideriamo, ad esempio, i poeti che ripropongono i versi, anche modificandoli, di quegli autori che li hanno maggiormente ispirati. Può succedere, e sono certo che capiti spesso, che leggendo una poesia o uno stralcio di romanzo si accenda una lampadina nella memoria e ci assalga poi una domanda: «Dove ho già letto questo verso?» oppure «Questa espressione non mi suona nuova!» E subito ci mettiamo alla ricerca perché quel passaggio ci ricorda altro: un’altra opera che sicuramente abbiamo letta e che lo scrittore ha voluto omaggiare. E allora ci rendiamo conto del fatto che forse la letteratura non è una libreria, dove ogni volume è separato dagli altri, ma è una tela fatta di richiami; di riprese; di corrispondenze, come disse il veggente maledetto Baudelaire quando realizzò che la natura non era altro che un unico organismo dove ogni singolo elemento, collegandosi ad altri, formava un corpo coerente. Ecco, e i lettori veggenti come Baudelaire mi daranno forse ragione, che la letteratura si presenta come una tela dove versi, anche distanti millenni, si accordano tra loro creando un’impareggiabile sinfonia capace di vincere «di mille secoli il silenzio». Ecco, anche io l’ho appena fatto: ho riproposto il verso di un poeta, furioso come il ruggito di un leone, vissuto qualche secolo fa.
Ho tanta fede in te
che durerà
(è la sciocchezza che ti dissi un giorno)
Con queste parole Eugenio Montale comincia quella che è una delle sue poesie poco note, Ho tanta fede in te, contenuta nella raccolta postuma Altri versi. È questa un’ironica, quanto struggente, lirica d’amore dedicata a Clizia, la donna tanto amata e ricordata dal poeta con tenerezza nei suoi ultimi giorni di vita.
Ho tanta fede in te. Mi sembra
che saprei aspettare la tua voce
in silenzio, per secoli
di oscurità.
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Questi versi potrebbero sembrare il continuo della poesia di Montale ma, in realtà, appartengono a un’altra, scritta dall’immensa Antonia Pozzi. La lirica, datata 8 dicembre 1934, ha per titolo Confidare.
Eugenio Montale fu un forte ammiratore di Antonia Pozzi; occupandosi della prefazione alla raccolta Parole, pubblicata da Mondadori nel 1948, parlò delle liriche della Pozzi come il «diario di un’anima». Passati molti anni, nel 1966, Montale dichiarò circa la propria produzione poetica:
«La mia poesia va letta insieme, come una poesia sola. Non voglio fare il paragone con la Divina Commedia, ma i miei tre libri li considero come tre cantiche, tre fasi di una vita umana.»
Sembrano quasi le stesse parole che espresse parlando delle liriche di Antonia Pozzi. Mi sarà concesso un momento di sfrenata fantasia? Quasi come se il poeta ligure si sentisse particolarmente vicino all’animo della poetessa. Ecco allora che il collegamento tra queste due poesie non appare poi tanto casuale. Non mi riferisco solo al verso, ripetuto più volte, «ho tanta fede in te» perché, come a breve vedremo, anche i temi attorno ai quali si sviluppa il loro discorso non sono tanto dissimili.
Ci troveremo allora in non so che punto
se ha senso dire punto dove non è spazio
a discutere qualche verso controverso
del divino poema.
Eugenio Montale parla di una lontananza, così come anche Antonia Pozzi («Mi sembra/che saprei aspettare la tua voce/in silenzio, per secoli/di oscurità»). Una lontananza vissuta, non con la consueta disperazione dettata dall’assenza, ma accettata serenamente. I toni delle due liriche non lasciano trasparire alcuna inquietudine ma solo un sentimento di tranquillità che nasce dalla fede.
Una fede laica perché indirizzata verso una persona in carne e ossa, che appartiene a questa terra.
So che oltre il visibile ed il tangibile
non è vita possibile ma l’oltrevita
è forse l’altra faccia della morte
che portammo rinchiusa in noi per anni e anni.
Questo dichiara il poeta ligure: una dimensione ultraterrena è impossibile, siamo tutti orfani di Dio. La fede verso un altro essere umano, però, permette di riempire quel vuoto, insopportabile, lasciato da Dio.
«Anche se io non riuscirò mai a vedere nel vostro Cristo più che l’uomo, pure saprò farmi buona, saprò camminare, saprò crearmi dentro sempre più il mio dio: e non cercherò di conoscerlo, perché conoscerlo è rimpicciolirlo. Sarà un camminare con una meta canora dentro, che non si può vedere ma senza posa si sente; un vivere la vita senza abbandoni, creandosene dentro, ad ogni istante, gli scopi.»
Così scrive, nel 1930, Antonia Pozzi all’amato Antonio Maria Cervi. Una fede che si apre al divino che è presente su questa terra, a un dio che invita i propri figli ad abbracciare la vita e il prossimo «senza abbandoni». Una tensione metafisica domina nei versi sia della Pozzi che di Montale: un bisogno di infinito, di una dimensione nella quale trovare la pace e che risponda alla loro sete di Dio. La fede, terrena perché diretta verso un altro essere umano, è una svolta necessaria.
Tu sai tutti i segreti,
come il sole;
potresti far fiorire
i gerani e la zàgara selvaggia
sul fondo delle cave
di pietra, delle prigioni
leggendarie.
Una fede, quella che coltiva dentro di sé Antonia Pozzi, investe quel «Tu» di poteri divini: infatti conosce «tutti i segreti, / come il sole». Che cos’è il sole se non luce? E la luce, nella Bibbia, è l’immagine sia di Dio che della verità.
Ho tanta fede in me
e l’hai riaccesa tu senza volerlo
senza saperlo perché in ogni rottame
della vita di qui è un trabocchetto
di cui nulla sappiamo ed era forse
in attesa di noi spersi ed incapaci
di dargli un senso.
In entrambe le liriche gli amanti si muovono in un mondo arido e decadente: ci sono i rottami, «cave di pietra» e «prigioni leggendarie». Un mondo, sempre più oscuro e tormentato, che diventa però scenario che accoglie il miracolo, permesso solo grazie alla fede in quel «Tu».
L’asperità del paesaggio viene addolcita dalla presenza dei raggi del sole che svelano ogni segreto: la realtà diventa comprensibile, non esistono più zone d’ombra che possono incutere spavento. Antonia Pozzi ritrova finalmente quella serenità che le minacciose «cave di pietra» le avevano tolto; anzi, queste vengono abbellite dai «gerani e la zàgara selvaggia».
Stesso miracolo avviene nell’universo di rottami di Eugenio Montale: la fede risponde all’«attesa» e dona un senso – seppure illusorio e transitorio – che riaccende la fiducia in se stessi.
Ho tanta fede in te. Son quieta
come l’arabo avvolto
nel barracano bianco,
che ascolta Dio maturargli
l’orzo intorno alla casa.
Con questi versi si chiude la poesia di Antonia Pozzi. In lei è forte e viva la quiete, ciò è possibile grazie alla sua fede. Questa, inoltre, permette anche un altro miracolo: non solo svela ogni segreto ma permette anche la vita. Antonia avverte «Dio maturargli/l’orzo intorno alla casa». La fede le apre i sensi e le permette di godere della rinascita della natura; ma questo rinascere interessa anche lei.
Ho tanta fede che mi brucia; certo
chi mi vedrà dirà è un uomo di cenere
senz’accorgersi ch’era una rinascita.
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Anche Montale rivive: è come un’araba fenice che sorge dalle proprie ceneri. La fede verso quel «Tu» brucia il poeta, privandolo di tutto ciò che non è essenziale; lo immerge, come accadde anche a Dante nel Paradiso Terrestre, nel fuoco che purifica e rigenera.
Ed ecco accadere l’ultimo miracolo: non saranno gli amanti ad ascendere verso il Paradiso ma sarà questo a materializzarsi sulla terra.
Tutto ciò grazie alla fede che nasce dall’amore.
Per la prima foto, copyright: Jr Korpa su Unsplash.
Per la seconda foto, la fonte è qui.
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