Henri Matisse e il suo odio per Raffaello. Un’intervista possibile
Sono molte le recensioni, le interviste, i pareri espressi da storici, critici e esperti d’arte sulle opere degli artisti. Alcune volte nascono accesi dibattiti sulle attribuzioni, come nel caso del crocifisso di Michelangelo, altre volte vengono pubblicati romanzi tratti dalla vita degli artisti, come questo edito da Giunti. Quanto vorremmo a volte che fossero loro, i creatori dell’arte, a raccontarci i fatti. Quanto ci sarebbe piaciuto incontrare Van Gogh per chiedergli come andarono le cose tra lui e Gauguin? Quanto avremmo voluto incontrare Monet per osservare in sua compagnia le ninfee immortalate nelle sue opere. Un esperimento è ciò che abbiamo voluto provare perché se nella realtà alcune cose non possono accadere, nell’immaginazione sì.
Chiudendo gli occhi per un istante, abbiamo immaginato, con la complicità di quanto da lui scritto in diari e lettere, un’intervista a Henri Matisse: ci ha confidato come iniziò la sua carriera, le sue passioni (oltre all’arte), la sua antipatia per una delle figure emblematiche del Rinascimento italiano e molte altre curiosità.
Una domanda che solitamente si pone ai grandi maestri: come e quando è iniziata la sua passione per l’arte? In fondo suo padre avrebbe voluto che lei proseguisse la carriera da avvocato, è corretto?
Sono figlio di un commerciante di sementi, al quale avrei dovuto succedere nella gestione del negozio. Provai però a intraprendere la carriera di avvocato, ma le mie condizioni di salute, sembra paradossale, furono terapeutiche: mi aiutarono a capire cosa avrei voluto fare da grande.
Ero convalescente per un attacco di appendicite che mi costrinse a rimanere a letto per un anno. Conobbi un amico che copiava le cromolitografie di paesaggi svizzeri. Passai all'attacco quando mi propose di fare la stessa cosa per ammazzare il tempo. Incaricai mia madre di andare a comprare una scatola di colori e cominciai a copiarli. Una volta che la pittura si impossessò di me, non ci lasciammo più. Scappai a Parigi all'età di 21 anni per fare il pittore: mio padre credeva fossi pazzo. Studiavo negli atelier la mattina, mentre il pomeriggio facevo copie al Louvre. Che gran bel periodo! E pensare che quando iniziai non avevo nemmeno i soldi per pagarmi una birra![1]
Trascorrevo le mie giornate nei musei e poi ritrovavo, nelle mie passeggiate, gioie analoghe a quelle sentite nella pittura. Ah, se non avessi avuto il supporto della mia carissima moglie Amélie, l'unica che credette davvero in me.
All’inizio fu difficile guadagnarsi da vivere. Ci crede se le dico che a trent’anni frequentavo ancora le accademie? Non era per le lezioni, sa. E neppure per i professori che non avevano nulla da insegnarmi. Ma nelle accademie i modelli per il nudo non costavano quasi niente, e io non avevo i mezzi per farli posare solo per me. E non potevo fare a meno di modelli viventi.
Quali sono stati i suoi maestri?
Primo fra tutti Gustave Moreau. Ricordo il suo insegnamento: «Non accontentatevi di andare al museo, scendete in strada». Aggiungo sicuramente Piero della Francesca, i primitivi senesi, Giotto. Anzi, a tal proposito: ricordo di aver visitato la Cappella degli Scrovegni nel mio viaggio in Italia. Quando vidi gli affreschi di Giotto non mi preoccupai di sapere quale scena di Cristo avevo sotto gli occhi, ma percepivo il sentimento contenuto nelle linee, nella composizione, nei colori.
Monet è grandissimo.
Quale pittore, invece, non lo entusiasmava?
Forse direi Raffaello: sì, Raffaello non mi piaceva affatto[2]. Forse perché, differentemente da me, costruiva a partire dal disegno. Io dal colore. E poi le dame che rappresentava? Sembravano tutte uguali. Ricordo che al Louvre feci una copia del suo Ritratto di Baldassarre Castiglione. Chissà che fine ha fatto! Il mio conoscente Pablo [Picasso, ndr] diceva: «A dodici anni sapevo disegnare come Raffaello». Devo aggiungere altro? Come già saprà, non ho un bel ricordo di quel donnaiolo: non è nemmeno venuto al mio funerale! Non provo rancore verso di lui, anzi, a volte apprezzavo pure alcuni suoi lavori.
Si stabilì a Colliure, nel sud della Francia con moglie e figlia. Qui realizzò un bel po’ di opere tra cui una che pare non aver concluso. Corretto?
Ah, sì. Porta-finestra che ora so essere custodita al Centre Georges Pompidou di Parigi.
Mi ero stabilito lì nel 1905. I critici d’arte dei vostri tempi vi avranno sicuramente detto che si tratta di un "non-finito". Non ho firmato l'opera, infatti, come di norma ero solito procedere. Provate a dare un’occhiata alle altre mie opere.
Osservate bene quella striscia nera a luce radente: notato nulla? C’è chi ha visto una griglia, chi un paesaggio o chi anche un personaggio. Il tema della finestra è molto frequente nelle mie opere: volevo mostrare le emozioni che mi trasmettevano gli oggetti nell’istante dell’osservazione, rendere tali emozioni attraverso i colori. Ah, guardate cos’ho in tasca?
Il colore ha un’enorme importanza nei suoi dipinti. Per questo è considerato il rappresentante più noto del Fauvismo, secondo cui i dipinti devono esprimere attraverso il colore. Si narra che Signac criticò una delle opere che lei fece e che forse è la più nota.
I colori non servono a rappresentare, ma a esprimere. Sono i colori, non le forme, a dare struttura a un dipinto. Mi sono servito del colore come mezzo per esprimere le mie emozioni e non per riprodurre la natura. E poi io sento col colore, e quindi la mia tela sarà sempre organizzata attraverso di esso. Sa quel che mi disse Signac quando presentai quest’opera, Le bonheur de vivre [Gioia di vivere, ndr]?
«Matisse… sembra essere andato ai cani. Un dipinto con figure dai contorni spessi come un pollice. Poi ha coperto il tutto con tinte disgustose»[3].
E pensare che io chiamavo questo dipinto “la mia Arcadia”. Esprimeva tutte le emozioni che provavo osservando la spiaggia di Ouille, sconosciuta ai più ma da vedere! Suoni, gioie, danze… Vi sfido: se cliccate su Google “Danza+Matisse”, troverete la spiegazione della presenza di quelle persone danzanti al centro di quest’opera.
Era il 1906 quando feci il mio primo viaggio in Algeria, a Bistra. All'epoca era colonia francese. La luce e i colori dell'Africa mi rimasero talmente impressi che non riuscii più a non mettere nelle mie opere quel gusto coloristico dell'atmosfera africana. Mi innamorai del blu, il colore delle maioliche decorate di ispirazione orientale. Volevo trasmettere positività e l’ho fatto anche attraverso l’uso dei colori.
Ci sono alcuni elementi stilizzati, arabeschi nelle sue opere. Sappiamo che aveva un debole per l’Oriente. Tuttavia, c'è chi riteneva l'arabesco un delitto. Lei come risponderebbe?
Molto brevemente. Gli arabeschi non sovraccaricano mai i miei disegni, ma fanno parte della mia orchestrazione del quadro. Non potevo farne a meno. Per me un quadro dovrebbe sempre essere decorativo. La sostanza non basta, occorre anche l’apparenza.
C’è un’opera che mi incuriosisce molto: Grande interno rosso del 1948. Devo dire che la prima cosa che salta all’occhio è quel rosso acceso che domina l’intera opera…
Era il 1946 quando mi trasferii a Vence, un paese in collina, vicino a Nice. Ho voluto moltiplicare i contrasti: vede le due tele alle pareti? Sono una l’opposto dell’altra. Oppure i due tavoli: uno tondo, l’altro rettangolare. Ero oramai settantenne: volevo fare un riassunto della mia pittura e questo presupponeva una sintesi anche del mio amore per il colore. Quel rosso, sì, è particolare. Ricordo che fui attirato dal rosso cadmio che cominciò a essere commercializzato dal 1910: si tratta di una miscela di giallo cadmio e selenio.
Le devo dare una notizia che forse la sconvolgerà non poco: lei ha appreso che l’Unione europea ha vietato il cadmio, vero? I residui di cadmio, usati anche nella pittura, finivano nei fanghi di depurazione e di conseguenza nei fertilizzanti usati in agricoltura.
Davvero? Ne sarà felice Vincent [Van Gogh, ndr] che utilizzava di frequente il giallo cadmio. E io che continuavo a suggerire a Renoir di utilizzare il rosso cadmio al posto di quel suo vermiglione!
In ogni caso sono sempre molto dubbioso di ciò che scrivono i giornalisti[4].
Negli ultimi anni della sua vita, si è dedicato al collage. Tra i più celebri ricordiamo Icaro. Vuole spiegarci perché intitolò così quell’opera?
Amavo molto la musica. Musica è anche il titolo di un mio dipinto. Le mie carte ritagliate erano improvvisazioni cromatiche e ritmate che, in fondo, ricordano il tempo sincopato del jazz. Attraverso il papier découpé posso disegnare nel colore. Invece di partire dal contorno, procedo direttamente dalle tinte: con l'utilizzo delle forbici effettuo dei tagli su carta. Icaro rappresenta il desiderio dell’uomo di volare, di oltrepassare i propri limiti, di abbracciare le stelle e l’unico modo per farlo è lasciarsi guidare dal cuore che in quell’immagine compare come un puntino rosso.
La musica era anche il suo piano B, giusto? Oggi si parla molto dell’importanza di avere un secondo progetto nella vita.
Corretto. Nel 1918 cominciai a studiare seriamente il violino. Temevo di perdere la vista e quindi di non poter più dipingere. Allora, ho pensato una cosa: cieco, si deve rinunciare alla pittura, ma non alla musica. Potrei sempre andare nei cortili a suonare il violino. Così avrei potuto guadagnarmi da vivere.
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Ha un consiglio per chi vuole avvicinarsi al mondo della pittura?
Direi questo. Per dipingere, cominciate a osservare a lungo e con attenzione il modello e decidete il vostro schema cromatico generale. È questo che deve prevalere. Ci sono momenti nella vita in cui si vorrebbe abbandonare tutto, ma se nel lavoro una cosa mi andava male mi ripetevo: ho dei colori, una tela e devo esprimermi con schiettezza.
Volete fare pittura? Cominciate col tagliarvi la lingua perché dovete essere in grado di esprimervi solo con i pennelli. Non ho cessato un istante di lavorare. Dalle nove a mezzogiorno facevo la mia prima seduta. Poi mangiavo. Un pochino di siesta e riprendevo i pennelli dalle due del pomeriggio fino a sera. Crederci sempre.
Dalle recensioni che si leggono su TripAdvisor pare che in Italia le sue mostre siano sempre apprezzate. Secondo lei, quali sono gli elementi che attirano nelle sue opere d’arte?
Buffo questo TripAdvisor. Quand’ero giovane, i commenti si leggevano sui giornali o si ascoltavano di nascosto le conversazioni nei bistrot: un'ansia![5] Se trovo qualcuno che può insegnarmi qualcosa, sono felice di approfittarne: in una parola non credo che un artista sia mai “arrivato”. Ora conosco uno strumento in più!
Credo che ciò che colpisce di più nelle mie opere sia il colore. Per me parte tutto da lì: servirsene sapientemente. Io, per esempio, non mescolavo mai molto sulla tavolozza e non utilizzavo mai più di dodici colori alla volta.
Mi fanno piacere tutti questi commenti positivi. Vedete, quando penso alle seccature di una volta, mi chiedo se non hanno contribuito a stimolare in noi l’energia per vincerle. La vita è breve. Senza fastidi, passerebbe troppo in fretta e non avremmo fatto progressi.
Oggi ci sono molti corsi motivazionali che insegnano ad agire come lei ha appena suggerito.
Tutto quello che ho fatto mi viene dai genitori, gente modesta ma schietta e lavoratrice. Ho imparato a trovare la forza anche nelle difficoltà.
Ci sarà però qualche marachella che avrà combinato da giovane.
Ebbene sì. Quand’ero giovane costruivo palline di argilla e le lanciavo con la cerbottana addosso alla gente.
Ora vorrei far con lei un gioco, una sorta di quiz per i nostri lettori. So che ha con sé una serie di foto. Decida lei come impostare la sfida.
(sorride) Facciamo così. Vi propongo tre foto e voi dovete dirmi quali mie opere vi ricordano.
1. Questa è una foto che feci a casa di Renoir. Ah, quello al centro sono io. Ma la donna seduta chi è? Quale opera le ho dedicato?
2. Se io vi facessi vedere questo scatto, mi sapreste dire quale dipinto vi ricorda?
3. Questa è difficile. La lascio solo per i miei fan esperti. Ho sempre amato molto i gatti. C’è un’opera che ho realizzato, in cui ho dipinto pure il mio. Vi ricordate il nome del mio gatto e quale opera ho dedicato a lui? Nel frattempo un catvertising (si dice così?) per voi!
Grazie Matisse per farci ancora sognare con le tue opere.
Se volete scoprire le opere di Matisse potete recarvi fino al 15 maggio 2016 presso Palazzo Chiablese a Torino, dove la mostra Matisse e il suo tempo, curata da Cécile Debray, conservatore presso il Centre Pompidou di Parigi, raccoglie cinquanta opere matissiane e quarantasette di altri artisti, come Picasso, Mirò, Modigliani, Dérain, Braque, Marquet, Léger, Bonnard e Renoir.
La mostra, organizzata in dieci sezioni, permette di avventurarsi nel mondo artistico di Matisse e degli altri protagonisti dell’arte che gravitarono in quel periodo. In fondo è ciò che avrebbe voluto lo stesso Henri: conoscere gli artisti attraverso le loro opere.
Consigli di lettura
Oltre i testi già citati nel presente articolo, consigliamo anche Henri Matisse: l'intervista perduta con Courthion Pierre, Skira, 2015.
E per i più piccoli, Il giardino di Matisse di Friedman Samantha e Amodeo Cristina, Fatatrac, 2014.
[1]Henri Matisse, Scritti e pensieri sull'arte, Abscondita, 2003.
[2]Henri Matisse, Scritti e pensieri sull’arte, Abscondita, 2003.
[3]Hilary Spurling, The Unknown Matisse, University of California Press, 2001.
[4]Matisse fu da sempre sospettoso nei confronti dei giornalisti e di conseguenza raramente si metteva a disposizione per interviste. Temeva di essere travisato ed era convinto che l’artista dovesse parlare solo attraverso le sue opere e non avesse bisogno di dichiararsi alla stampa.
[5]Matisse era ricordato dai suoi colleghi come una persona ansiosa.
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