Heinrich Böll, il suo ricordo a 30 anni dalla scomparsa
Heinrich Böll è sicuramente uno degli intellettuali più discussi della seconda metà del Novecento. In rete ho trovato questo commovente articolo di Italo Chiusano nell’archivio online di «Repubblica», uscito l’indomani della scomparsa dello scrittore tedesco, avvenuta il 16 luglio 1985. E nemmeno dopo 30 anni dalla sua morte sapevo da dove iniziare quando ho aperto Word per questo articolo: decisamente vasta la sua produzione, più che interessante la sua biografia. Dopo un paio di tentativi ho deciso di partire da un flashback di Opinioni di un clown (1963) in cui Hans Schnier, clown di successo ormai sulla via del declino professionale nella Germania in ripresa degli anni Sessanta, protagonista narratore del romanzo, nato in Renania da una famiglia benestante filo-nazista negli anni Trenta i cui membri ora agiscono come se nulla fosse successo, si dedica a una riflessione sui suoi pianisti preferiti e ricorda il fratello Leo al pianoforte, intento a suonare Chopin:
«Leo e Chopin non si adattano l’uno all’altro, ma suonava così ben che me ne scordai. Dei compositori del passato Chopin e Schubert sono i miei prediletti. Lo so che il nostro insegnante di musica aveva ragione quando diceva che Mozart è divino, Beethoven grandioso, Gluck singolare e Bach potente. Lo so. Bach mi fa sempre l’effetto di una dogmatica in trenta volumi che mi lascia sbalordito; ma Schubert e Chopin sono terreni, come me».
A mio parere, in queste cinque frasi si può trovare tanto, forse quasi tutto di quello che è stato Böll come uomo, intellettuale e personalità pubblica della Germania del dopoguerra. La schiettezza dei suoi personaggi, accompagnata da un tocco di arguzia mista a malizia, l’istintiva ribellione nei confronti di cliché, e soprattutto uno sguardo vigile sul passato, ma nel contempo focalizzato sul presente: quando dice «Schubert e Chopin sono terreni, come me», per motivare la sua preferenza artistica, non penso che Hans Schnier intenda dire che i due compositori non abbiamo un talento ultraterreno; sa benissimo che questi toccano picchi troppo alti per essere definiti letteralmente «terreni, come me». Personalmente penso che Böll usi un’espressione del genere per far capire che la musica di Schubert e Chopin riesca ancora a trasmettergli sensazioni vive, conciliabili con il presente in cui è immerso il protagonista nel momento in cui narra, che è il fine principale della totalità dell’opera dello scrittore Premio Nobel.
La notorietà di Böll si deve alla critica pungente, a volte ironica e a volte diretta e feroce ma sempre e comunque persistente, ai regimi totalitari, alla Germania del prima e del dopoguerra e alla Chiesa cattolica. Grazie a punti di partenza del genere, oltre che per le sue idee sulla guerra fredda e la corsa agli armamenti, Böll negli anni si era guadagnato molte simpatie in Unione Sovietica.
Nato a Colonia nel 1927, da un padre falegname con una famiglia numerosa; fu commesso in libreria, soldato per la Germania nazista e prigioniero di guerra: prima di imporsi come importante intellettuale tedesco Böll passò una giovinezza piuttosto turbolenta, come d’altronde l’intera generazione che visse i propri “anni migliori” durante quelli del Terzo Reich e della seconda guerra mondiale in Germania. Bastano questi pochi cenni alla sua giovinezza per estrapolare tanti degli elementi che lo caratterizzarono, come scrittore e come persona (le due “dimensioni” sono in questo caso più di altre da prendere in considerazione unitamente), gli stessi individuabili fra le righe di Opinioni di un Clown citate in precedenza: la formazione piccolo-borghese (il pianoforte), il paesaggio e la mentalità della Renania, una concezione a suo modo distopica del nucleo famigliare, allo stesso tempo affettiva/classica e libertaria/moderna, in qualche modo vicina all’imparzialità («Leo e Chopin non si adattano l’uno all’altro, ma suonava così ben che me ne scordai») la critica nei confronti di razzismo, nazismo, Chiesa e capitalismo e delle istituzioni del dopoguerra in generale.
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Böll cominciò a vivere della sua scrittura piuttosto tardi rispetto agli standard del tempo (presto in confronto alle tempistiche dell’editoria italiana di oggi): a trent’anni iniziò a collaborare per la prima volta con i giornali ed esordì nella narrativa nel 1949 con Il treno era in orario (Mondadori, 2000). Il libro non fu un best-seller internazionale ma fece breccia all’interno della critica letteraria di quegli anni e permise al giovane Heinrich d’iniziare a frequentare il leggendario Gruppo 47, l’élite intellettuale tedesca che ha potuto vantare al suo interno nomi come il premio Nobel Günter Grass morto il 13 aprile scorso, Ingeborg Bachmann e Peter Weiss.
A partire da quegli anni, Böll non si ferma più: continua a pubblicare romanzi e racconti che raccolgono consensi dalla critica e premi prestigiosi, tutte storie ambientate in quegli anni, nei suoi anni, intento com’era a vivere e analizzare un eterno presente, perché è questo che l’intera opera di Böll ha come obiettivo e strumento. Dare testimonianza di sé, di ciò che lo ha circondato e del suo modo di rapportarci a esso è ciò che cerca di fare ogni scrittore e nessuno sguardo come quello dello scrittore tedesco è stato in grado di fotografare nel modo così preciso e tagliente che s’intravede già nei suoi primi romanzi e che si rafforza di pubblicazione in pubblicazione, fino ad arrivare ai due libri che più sono rimasti: Foto di gruppo con signora, prima edizione nel 1971, e L’onore perduto di Katharina Blum, nel 1974.
Qual è stato il segreto di Böll? Non si può parlare di segreti, trucchi o sotterfugi in letteratura. Certo è che, leggendo l’Intervista sulla memoria, la rabbia e la speranza a cura di René Wintzen (Laterza) si possono aver più chiare le idee. Questo libro si avvicina all’essere una rarità per “noi del nuovo millennio”, abituati a biografie rivelatrici, film-inchiesta e interrogatori… scusate volevo dire interviste concise: le possibilità di leggere una lunga conversazione con un premio Nobel non sono molte, e l’ampio respiro dell’intervista dà possibilità ai due conversatori di esprimere i propri concetti senza l’obbligo della concinnitas, cosa che qualche volta può aiutare pure il lettore.
Leggendo questo libro-intervista ho provato una sensazione particolare, un’intuizione a dire il vero rimasta indefinita per sole sei pagine e che sono riuscito a focalizzare già a pagina sette (dell’edizione 1979, sempre Laterza) grazie all’aiuto di Böll stesso. A una domanda della Wintzen, in cui gli chiede se non sia contraddittorio l’atteggiamento di Böll di dichiarare apertamente la sua appartenenza e la sua adesione alla Repubblica federale tedesca, nonostante tutta la sua opera e le sue «iniziative da cittadino e di uomo chiamino in causa» detto stato e la sua corrispondente società, lo scrittore risponde affermando che a suo parere «Il punto di partenza non è nemmeno sempre il cosiddetto impegno, bensì la lingua, il linguaggio; è con esso che si passa in esame il materiale chiamato Stato, società. Si tratta, capisce, di un processo fisico-chimico». Me lo vedo Böll, in giacca e cravatta, con la sua espressione leggera ma seriosa, concentrata, senza la necessità di tendere i muscoli del viso, con le gambe accavallate e il gomito appoggiato al bracciolo della sedia, l’intero busto leggermente inclinato, che chiarisce inconsciamente l’intuizione di un individuo qualunque nel futuro, in mezzo a un paio di frasi dalla portata intellettuale gigantesca, messe lì come se si stesse parlando oggi di un dubbio fuorigioco in una semifinale di coppa Italia. Ecco spiegata questa benedetta intuizione, insomma, molto meno banale di quanto possa sembrare, ve l’assicuro: Böll parla come scrive. Il segreto sta sì anche nella sua percezione delle cose, nella prospettiva del suo sguardo, ma è con il linguaggio che fa il salto di qualità. Immerso in una fede nella parola e nel suo utilizzo – dai sapori vagamente wittgensteiniani, bisogna dirlo – spiega il suo talento principale con un bel po’ di umiltà (che sa tanto di autoironia): «[…] esistono moltissimi e differenti approcci al linguaggio, e poiché io non so scrivere né in modo storico né in modo utopico, né lo vorrei, ricado sempre in questo nostro presente, il quale si esprime nel linguaggio in modo che si palesano dei conflitti».
Per la letteratura di questi anni, sempre più incentrata sul racconto dell’esperienza autobiografica e sull’impronta narrativo-saggistica della prospettiva dello scrittore di oggi, a 30 anni dalla sua scomparsa, Heinrich Böll si pone come un ineludibile riferimento.
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