Guido Cavalcanti, lo stravolgimento della passione
Il nome di Guido Cavalcanti è, inevitabilmente, legato a Dante, di cui fu amico intimo, e il cui padre Cavalcante dei Cavalcanti è dal Poeta collocato tra gli eretici e gli epicurei del canto X dell’Inferno accanto a Farinata degli Uberti. Guido nasce a Firenze, presumibilmente tra 1255 e 1258, e la sua famiglia fa parte della fazione guelfa; partecipa attivamente alla vita politica cittadina, divenendo il garante della pace tra Guelfi e Ghibellini del 1280, ed entrando successivamente nel consiglio generale del comune, di cui faceva parte anche Brunetto Latini, maestro di Dante.
Guido si schiererà in seguito dalla parte dei Guelfi Bianchi insieme all’amico Dante, scontrandosi aspramente con la fazione dei Neri guidati da Corso Donati. La sua condizione precipita nel 1300, quando i priori di Firenze, tra i quali Dante stesso, lo allontanano dalla città dopo una serie di gravi disordini legati agli scontri tra Bianchi e Neri. Guido si rifugia a Sarzana, dove si ammala; morirà poco dopo, proprio quando era appena tornato a Firenze grazie a un’amnistia.
Cavalcanti viene ricordato come una personalità forte, passionale, con un carattere sprezzante, solitario, ma anche ardito. Molto interessanti sono le sue posizioni intellettuali, venendo descritto dai contemporanei come un seguace della filosofia averroista e votato all’ateismo.
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Per poter avere un’idea della sua indole, della sua posizione intellettuale, rilevanti diventano le terzine del suddetto incontro tra Dante e Cavalcante; l’episodio è celebre, Dante sta camminando con Virgilio tra arche fiammeggianti entro le mura della città di Dite, quando due anime si levano da una di esse e cominciano a parlare con il Poeta. La prima è quella di Cavalcante, che subito domanda a Dante perché il figlio non sia con lui in quel viaggio così straordinario. La risposta di Dante è complessa: “Da me stesso non vegno: / colui ch’attende là, per qui mi mena / forse cui Guido vostro ebbe a disegno” (vv. 61-63). Una plausibile interpretazione è questa: “Non vengo da solo, per merito mio; Virgilio mi guida e mi conduce a qualcuno che forse il vostro Guido disdegnò”, intendendo un disdegno rivolto alla Fede. Guido non è meno meritevole di Dante a livello intellettuale, ma avrebbe rifiutato, per presunzione e superbia d’intelletto, di riconoscere la Fede come salvezza ponendola al di sopra dell’amore stilnovista.
Ma anche l’amore stilnovista di Guido si distingue da quello dantesco, e ben si nota osservando il suo canzoniere. L’opera si compone di una canzone, 36 sonetti, 11 ballate, tre strofe isolate e un mottetto. Va sottolineato come la produzione cavalcantiana si possa suddividere in due periodi, di cui il secondo presenta un indirizzo poetico e dottrinale differente dal primo, e, soprattutto, non giungerà mai sulla strada della morale che porterà alla Divina Commedia.
Il primo periodo guarda a Guinizzelli, alla sua ricerca stilistica, seppur impostata con diversa prospettiva filosofica e con un ribaltamento degli ideali, vivendo l’esperienza amorosa come un dramma, come un momento doloroso e sconvolgente, una lacerazione dell’animo che fa dell’uomo che la vive non un protagonista ma una vittima.
L’anima travolta viene spezzata, lacerata in più parti, e le facoltà umane sono inibite; nella sua lirica, Cavalcanti analizza nel dettaglio questi effetti amorosi, strutturando in rigoroso ragionamento logico, affatto semplice alla comprensione, la dottrina conseguente la passione amorosa. Le liriche di Cavalcanti sono senza dubbio tra le più ardue della produzione stilnovista.
Si può osservare, a tal proposito, una delle sue opere più celebri, il sonetto Chi è questa che vèn, ch’ogn’om la mira:
Chi è questa che vèn, ch’ogn’om la mira,
che fa tremar di chiaritate l’âre
e mena seco Amor, sì che parlare
null’omo pote, ma ciascun sospira?
O Deo, che sembra quando li occhi gira,
dical’Amor, ch’i’ nol savria contare:
cotanto d’umiltà donna mi pare
ch’ogn’altra ver’ di lei i’ la chiam’ira.
Non si poria contar la sua piagenza
ch’a le’ s’inchin ogni gentil vertute,
e la beltate per sua dea la mostra.
Non fu sì alta già la mente nostra
e non si pose ’n noi tanta salute,
che propiamente n’aviàn canoscenza.
Chi è questa che viene, che ognuno la guarda con stupore, che fa tremare l’aria di luce e porta Amore con sé, tanto che nessuno può più parlare ma ciascuno sospira?
O Dio, cosa sembra quando volge lo sguardo intorno, lo dica Amore perché io non lo saprei raccontare: mi pare così tanto la signora dell’umiltà, che ogni altra donna, rispetto a lei, la definisco superba.
Non si potrebbe descrivere la sua bellezza, poiché davanti a lei ogni nobile virtù si inchina, e la bellezza la indica come sua dea.
La nostra mente mai fu così elevata, e non fu posta in noi tanta capacità in modo potessimo averne una perfetta conoscenza.
Ci sono evidenti novità rispetto all’amore di Guinizzelli, sebbene la base di partenza sia uguale; la donna viene ammirata al suo passaggio, ma lo spirito dell’uomo non raggiunge più uno stato nobile, beato, piuttosto si palesa una condizione di angoscia, di non essere pronto e consono ad accogliere questa perfezione, che non può portare che smarrimento. La passione diventa cupa, non eleva ma ammutolisce nello sconvolgimento. Anche in Dante gli occhi si abbassavano e la bocca taceva, ricordando Tanto gentile e tanto onesta pare, ma in Cavalcanti tutto si sposta su di un altro piano filosofico, quell’averroismo che teorizzava tre anime nell’uomo: vegetativa, sensitiva, razionale.
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L’amore sfugge alla ragione e comincia a lacerare lo spirito, e l’ultima strofa dimostra come la ragione non possa avere luogo, facendo precipitare colui che subisce la visione in uno stato di totale incapacità di comprendere.
Riferimenti bibliografici
Storia e antologia della letteratura. Dalle origini al Trecento, Tomo 1, Bergamo, ATLAS, pp. 146-158.
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