Greta Garbo: diva per sempre
Sono passati venticinque anni dalla morte di Greta Garbo (New York, 15 aprile 1990), ma la divina resta l’immutata icona della leggendaria Hollywood degli anni d’oro del cinema, quelli che ne consolidarono la funzione di settima arte e, al contempo, con il sigillo apposto dal passaggio dal muto al sonoro, ne decretarono il ruolo di nuova e legittima proiezione della realtà. Ogni proiezione, tuttavia, è già intrinsecamente finzione e la vita di Greta Lovisa Gustafsson (Stoccolma, 18 settembre 1905) porta in scena una trama che anche il più abile e sagace degli sceneggiatori avrebbe faticato a ideare.
Greta, o Keta com’era chiamata in famiglia, è stata protagonista di un’infanzia instabile e problematica, segnata dal subbuglio delle incomprensioni familiari: padre ubriaco ma molto amato e perso precocemente; madre dispotica, insidiosa sfida ai sogni di gloria della figlia; un fratello e una sorella distratti o troppo presi da se stessi. La sua stessa formazione scolastica ne risentì: discontinua, volubile, utile, tuttavia, a introdurla alla lettura dei grandi maestri della narrativa scandinava, il premio Nobel Selma Lagerlöf, per esempio, autore de La leggenda di Gösta Berling, che nel 1924 vide la Garbo recitare nel primo ruolo importante (Elizabeth) nell’omonima trasposizione cinematografica.
Prima però Keta/Greta lavora presso un barbiere come tvalflicka, letteralmente: ragazza che insapona. Insapona il viso ai clienti, prepara asciugamani, pulisce pettini e rasoi e spende tutto ciò che guadagna in biglietti del cinema e del teatro, in riviste attraverso cui si esercita a coronare la sua più grande ambizione. Con ostinazione, trasporto e intelligenza, anche quando costretta a rubare nel negozio in cui lavora come commessa per pagarsi le lezioni per l’ammissione all’Accademia Reale per attori e registi.
Una vita (quasi) da romanzo, dunque, incluso l’abbandono anzitempo delle scene. Come detto, e oggi ricordato, Greta Garbo muore nel 1990, ma il suo ultimo film lo gira nel 1941 (Non tradirmi con me, George Cukor). Come una vera eroina, è padrona di se stessa e del suo destino; è diva per sempre ma non diva a ogni costo. «Bè, nessuno è il mio padrone, chiaro? Io sono roba mia, farò sempre quello che voglio, e non c’è uomo al mondo, può essere chi vuole, che può darmi un ordine. Chiaro?». La battuta è pronunciata in Anna Christie (Jaques Feyder, 1931), ma oltrepassa il confine finzione/realtà.
Una cosa è, appunto, la finzione e un’altra è l’illusione. Hollywood è entrambe e spesso si sovrappongono fino a diventare una cosa sola, un gioco crudele e perverso capace di schiacciare la volontà e prosciugare l’identità dell’uomo o della donna dietro la maschera del divo/a. In questo senso, la battuta pronunciata in Anna Christie è una dichiarazione perentoria: Hollywood non è padrona di Greta. Anche se l’ha creata e consegnata al mito.
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La via per Hollywood passa, però, prima da Berlino con la pellicola La via senza gioia (1925, Georg Wilhem Pabst, in Italia conosciuto anche col titolo L’ammaliatrice), titolo premonitore, forse, del viaggio verso la celebrità. Timoniere, Louis B. Mayer che offre al regista e alla sua attrice il biglietto di andata per la nascente mecca del cinema. E a Hollywood Keta diventa la divina Garbo, quintessenza della bellezza, una bellezza spietata, implacabile e inafferrabile come la mitica Mata Hari (1931, George Fitzmaurice). Una bellezza che è anche un equivoco, l’onesto malinteso per cui l’intera carriera della ex tvalflicka di Stoccolma sia eretta su fondamenta per così dire estetiche e non di solido talento e duro lavoro su se stessa, come invece non solo lei sente, ma anche chi ha una conoscenza meno didascalica e superficiale della sua vita può confermare in pieno.
La Garbo non è solo uno sguardo, una bocca, un corpo irresistibile, la seduttrice di frotte di spettatori pronti ad accapigliarsi per un suo sospiro. È piuttosto una donna in conflitto, come molte delle protagoniste che interpreta sullo schermo; è inquieta come Anna Karenina (1935, Clarence Brown), travagliata come Margherita Gauthier (1396, George Cukor), volubile come Kitty Garstin (1934, Il velo dipinto, Richard Boleslawski), pellicole queste che peraltro esprimono il forte nesso causale tra letteratura e cinema e che non a caso scelgono Greta come incarnazione di tre tipi di femminilità contrastata, strumento di passioni torbide e persino fatali. Anche Ninotchka (1939, Ernst Lubitsch) è uno strumento, del regime sovietico questa volta, che nel corso della trama si fa, tuttavia, scopo di un amore inizialmente impossibile.
Tutte queste donne ̶ Anna, Margherita/Camille, Kitty, Mata, Ninotchka, ma anche la Regina Cristina (1933, Rouben Mamoulian), o madame Grusinskaya (Grand Hotel, 1932, Edmund Goulding) – sono pose tragiche e romantiche ma pur sempre effimere, proiezioni dell’artificioso e dorato mondo hollywoodiano, una trappola di sogni all’ingrosso che poteva aver irretito la giovane Keta, ma non illude più Greta, ormai conscia che il cinema degli anni Quaranta non si addice a una vera diva per sempre.
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