“Grandi momenti” di Franz Krauspenhaar, il cuore matto di uno scrittore
Gli scrittori irregolari, cioè quelli non irreggimentati alle mode dei salotti letterari, hanno avuto sempre vita dura in Italia. La classificazione è ardua, l’inserimento in qualche consorteria editoriale impossibile. Meglio lasciar perdere, soprattutto le loro opere. Ecco spiegata la “sopportazione editoriale” di un Luciano Bianciardi, di un Lucio Mastronardi (per non parlare dell’assurda vicenda subita in vita da Guido Morselli). Oggi che il mercato domina incontrastato, l’irregolarità è guardata ancora più sott’occhio, perché nemica del “politicamente corretto”, della “trama semplice per il lettore medio”, del “romanzo giallo”. L’irregolarità invece se ne frega di essere “carina”, si nutre di eresia, anzi ha proprio nell’eresia il suo tratto distintivo e la sua ragion d’essere.
Franz Krauspenhaar, romanziere, poeta e compositore, fa parte a pieno titolo degli “irregolari”, insieme a gente come Francesco Permunian, Vitaliano Trevisan o Beppe Sebaste (i nomi più significativi che mi vengono in mente). Krauspenhaar ha appena mandato alle stampe il suo nuovo romanzo: Grandi momenti, per Neo. Edizioni.
Come ha scritto Luca Ricci, qualche tempo fa sul «Messaggero», «Krauspenhaar faceva autofiction quando l’autofiction non era ancora diventata moda editoriale». Gli “oggetti narrativi” dello scrittore italo-tedesco hanno sempre avuto un feroce tratto autobiografico, su cui s’innesta una fantasia anarchica, strafottente di regole e gabbie narrative, che trova buon gioco anche nello sberleffo, nello sghignazzo grottesco che rimanda alla furia iconoclasta di un Céline, di un Henry Miller o di un Charles Bukowski.
In Grandi momenti (titolo beffardamente dickensiano) si parla dello scrittore Franco Scelsit, autore di romanzi sperimentali, il quale si sta riprendendo da un infarto (come lo stesso Krauspenhaar qualche tempo fa). Vive con sua madre, il “colonnello”, e suo fratello, artista anche lui ma nel campo della pittura. Abita una Milano ormai “bevuta” e spettrale («…una città di morti, o di ricoverati ad libitum, come il sottoscritto. È un sanatorio.») e ha una rabbia che se lo porta via, rabbia per quello che gli sta intorno e che gli dà il voltastomaco.
«Sono per la rivoluzione globale. Ma naturalmente sono nato troppo tardi. I nostri fratelli si sono beccati tutto il merito. E tutto per mettercelo nel culo, per diventare i grandi capi universali. Vaffanculo. Noi nati negli anni Sessanta non siamo nulla, non abbiamo nulla… Sono dei perbenisti del cazzo, dei borghesi di merda. Dovrebbero cagare statuine votive di Joan Baez e di quel rompicoglioni di Bob Dylan senza soluzione di continuità».
Per far soldi a Scelsit tocca scrivere romanzi gialli, “da autogrill”, che saranno poi pubblicati dall’editore Santiloni. Il personaggio principale di questi libri ha un nome che è tutto un programma: Stan Dolero. Scelsit è in quella età, cinquant’anni suonati, dove la giovinezza è ormai un ricordo malinconicamente lontano. Ci si prepara a fare i conti con la vecchiaia (e naturalmente con la morte), una vecchiaia che Franco Scelsit odia con tutto il cuore:
«Ho un conto già aperto con la vecchiaia: la odio, è il mio futuro, il mio destino, l’ultima tappa prima della grande partenza. La incontro tutte le mattine, uscendo, e la ritrovo nelle fattezze di mia madre ottantenne con le trecce di Pippe Calzelunghe».
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Eppure tra i suoi compagni di sventura, gli infartuati, si ritrova attorno tanti “catorci” che fanno la loro bella ginnastica rieducativa e si aggrappano famelicamente alla vita, e a ognuno di loro lo scrittore dedica un cameo, ora tenero, ora distaccato o rabbioso, ammirandone, in certo qual modo, la tenacia, il desiderio ancora di vita. Con alcuni di questi si riunisce una sera alla settimana per la “cardiopizza”, occasione per farsi in loro compagnia una delle sue tante birre (d’altronde, «la birra è tutto quel che c’è» canta Capossela in una sua vecchia canzone) e tentare di esorcizzare il tempo della decadenza. Perché Scelsit ingaggia un vero corpo a corpo col tempo («C’è qualcosa che non funziona, penso. Il tempo ti ammazza. Il tempo bara sull’età.»), senza esclusioni di colpi: non a caso una delle citazioni di apertura del libro appartiene a La freccia del tempo di Martin Amis, unico autore contemporaneo che Scelsit legge, dato che la sua memoria artistica è rimasta agli anni Settanta e Ottanta («Il mio immaginario è incastrato laggiù. Le mie giornate le vivo oggi ma con le modalità, i colori e i sapori di ieri. E non è nemmeno corretto parlare di “gusto retrò”, perché per me il retrò non esiste. Semmai è questo avanzamento senza scopo, questo lasso di tempo che non ha alcun senso»).
Gli anni che vive sono purtroppo quelli dei libri da supermarket, anni in cui dominano parole come “narrazione” o “storytelling” («parole che mi fanno urlare», ha detto in una recente intervista Vitaliano Trevisan che ha da poco pubblicato un libro-monstre dal titolo Works), in cui gli «editori di carne in gelatina vogliono trame elementari e avvincenti come cinematografari di serie B».
In Grandi momenti la storia non esiste, o meglio non è l’elemento fondante del libro, che parte appunto dal corpo e dal sangue di Franco Scelsit/Franz Krauspenhaar per tentare di regolare i conti con i fantasmi della propria vita («bisogna sempre star dietro a se stessi e ai propri fantasmi… Dicono che non esistono gli spettri. Ma io li vedo sempre, senza alcuna paura. Sono intorno a noi»): in primo luogo il padre (morto vent’anni prima, mentre cercava di attraversare il confine dell’ex Jugoslavia, dopo aver sottratto i soldi alla finanziaria per cui lavorava) che ha assunto le sembianze di una lepre, l’animale che incrocia sulla strada (soprattutto la Milano-Laghi, ma una volta anche il Salone del Libro di Torino) e che scappa rapidissima, molto più rapida dei bolidi vintage a cui si affida Scelsit, amante a sua volta della velocità spericolata, quasi in una stanca, slabbrata vertigine da tardo Futurismo. Ma la lepre è imprendibile, sfugge al contatto con il figlio, che non può che sfogare la sua rabbia impotente, ma comunque devastante («Bastardo figlio di puttana! Bastardo, bastardo! M’hai lasciato solo, qui, nella merda!»).
Il senso di abbandono provato da Scelsit si traduce in una bulimia sovraeccitata che ha per oggetto, oltre ai bolidi vintage, anche le donne. Una bulimia che è il contrario esatto dell’amore («Perché l’amore, laddove esiste, è una cosa seria. E io sono un clown senza più voglia di ridere») e che peggiora la solitudine a cui si consegna Scelsit, preda di visioni/sogni/voci sempre più strane, ma che lo portano comunque a sperimentare una nuova dimensione del vivere, una nuova consapevolezza («La mia testa è come se si stesse aprendo, espandendo verso mondi diversi»).
Non è forse questo il destino di uno scrittore “irregolare”? Essere una sorta di sciamano, a contatto con visioni sconosciute ai più, che accetta di far battere il suo cuore a un ritmo molto diverso da quello del “sentire comune”. Quel battito noi lo chiamiamo letteratura.
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