Grandi fotografi grandi narratori – 34 Ghitta Carell
Molti ritratti fotografici di personaggi celebri in Italia, nel periodo che va dagli anni Trenta ai Cinquanta del ventesimo secolo, sono opera della stessa persona: la fotografa ungherese, poi naturalizzata italiana, Ghitta Carell (Szatmár, 20 settembre 1899 – Haifa, 12 febbraio 1972), affermata ritrattista durante il ventennio fascista e l’immediato dopoguerra.
Nata in una cittadina di provincia, si trasferisce a Budapest per studiare e qui segue un corso fotografico “per signorine”, in cui viene subito iniziata all’arte del ritratto in studio, che era allora lo sbocco tradizionale per le donne che volessero dedicarsi alla fotografia. Apprende, quindi, a ritrarre i soggetti secondo la moda dell’epoca, in pose languide e tra luci soffuse, utilizzando il ritocco per ammorbidire i contrasti e migliorare l’aspetto generale delle persone, secondo un gusto ottocentesco che presto sarebbe stato sostituito da una maggiore aderenza alla realtà.
Frequenta lo studio di Aladár Székely, importante fotografo che la introduce negli ambienti intellettuali di Budapest, e trascorre poi un periodo a Vienna e a Lipsia per completare gli studi. Nel 1924, però, si trasferisce a Firenze, ospite di Márk e Matild Vedres, lui scultore e lei storica dell’arte, che radunano attorno a sé un folto gruppo di scrittori e artisti mitteleuropei, oltre a frequentare il vivacissimo ambiente intellettuale della città toscana.
Nel 1926, la sua fotografia di un bellissimo bambino vestito da balilla è scelta per un manifesto di propaganda del regime, e appare ben presto sui muri di tutta Italia, regalandole un’improvvisa notorietà. Si trasferisce, perciò, a Roma, più che mai centro di potere e della vita intellettuale per espressa volontà del regime, e per trent’anni ritrae tutte le persone che contano: aristocratici, imprenditori e poi gerarchi, principi della Chiesa, esponenti della cultura ufficiale. Viene introdotta a corte e diviene fotografa della famiglia reale, ma soprattutto, una volta che davanti al suo obiettivo si mette in posa Mussolini, farsi fare il ritratto dalla Carell diviene quasi un obbligo sociale.
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Nemica acerrima di Adolfo Porry Pastorel, che negli stessi anni inventava il fotogiornalismo italiano, la Carell continua a praticare le tecniche apprese in gioventù, regalando ai suoi ritratti, rigorosamente eseguiti con un banco ottico a lastre, un fascino ottocentesco.
Elena Canino, scrittrice che per quattro anni lavora come segretaria della fotografa, nel suo diario offre vivaci descrizioni dello studio, dei personaggi che vi transitano e della mentalità della Carell: «[…] appare la signora, tailleur nero, piccolo gioiello antico, aria sempre un po' stupita», che per gli appuntamenti fa usare un «taccuino come un messale, nelle pagine sono prenotati tutti i nomi politici e mondani di Roma. Per trovare ore disponibili per nuove pose bisogna fare opera d'incastro» (Elena Canino, Clotilde tra due guerre, Longanesi, 1956, p. 273).
«Un altro mio incarico è quello di prendere in consegna le valige da cui le signore si fanno precedere. È la signora che deve decidere quale, dei tanti vestiti che vi stanno piegati dentro, è adatto. Niente è lasciato alla loro scelta, né la scollatura, né i ricci, né la posa. Poi in camera oscura le fa smagrire di dieci chili in dieci minuti, raschiando dove bisogna. Ravviva gli occhi con i suoi pennellini, le fa tutte belle: giovani e svelte ninfe». (Ivi, p. 274)
Scegliendo con abilità le ambientazioni e utilizzando con maestria l’arte del ritocco in camera oscura, la Carell offre ai suoi soggetti dei ritratti in un certo senso idealizzati, mostrandoli come loro stessi vorrebbero essere visti dagli altri.
La sua fama le permette, pur essendo ebrea, di restare a Roma e continuare l’attività, in deroga alle leggi razziali del 1938, seguendo un comportamento di prudente conformismo, anche se questo non le impedisce di rivolgersi ai gerarchi fascisti con sarcasmo, ironizzando anche sul loro desiderio di essere immortalati in pose eroiche. Nel dopoguerra passano ancora davanti al suo obiettivo i politici della neonata repubblica, gli intellettuali e persino un giovane Walt Disney, fino alla decisione di trasferirsi in Israele, dove muore nel 1972.
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