Grandi fotografi grandi narratori – 19 William Eggleston
Fin dai primi decenni della storia della fotografia assistiamo a una separazione piuttosto netta fra il suo utilizzo a fini pratici, come documentazione giornalistica, tecnica o pubblicitaria, e la ricerca di chi la vede come un mezzo artistico, evoluzione naturale della pittura figurativa che, superata da un modo così preciso di riprodurre la realtà, inizia in effetti un lento declino.
Occorre però precisare che la foto d’arte resta per decenni esclusivamente in bianco e nero perché il colore, che inizia a diffondersi dalla fine degli anni ’30, quando la Kodak immette sul mercato le prime pellicole di questo tipo, e poi nel secondo dopoguerra,viene per molto tempo considerato adatto solo alle immagini familiari e commerciali.
William Eggleston (Memphis, 27 luglio 1939) ha iniziato prima di tutti a usare abitualmente il colore per realizzare immagini artistiche, diventando il capostipite di una nuova scuola fotografica e aprendo la strada a infinite sperimentazioni successive.
Nato nel Tennessee e cresciuto in un’altra cittadina di provincia del profondo Sud degli Stati Uniti, Summer nel Mississippi, Eggleston frequenta l’università senza laurearsi, più interessato ai suoi talenti naturali che lo portano verso il disegno e la musica, ma già a diciannove anni acquista la prima Leica e si avvicina al mondo della fotografia. Negli anni della formazione rimane colpito soprattutto da due libri fondamentali, American Photographs di Walker Evans, autore delle più famose immagini che documentano la Grande Depressione seguita alla crisi del 1929, e The Decisive Moment di Henri Cartier-Bresson.
Eggleston si discosta però molto presto dallo stile dei suoi maestri, entrambi rigorosamente fedeli alla pellicola in bianco e nero, perché è affascinato dalle possibilità offerte dalle pellicole a colori, e soprattutto da quelle per realizzare diapositive, che al principio degli anni ’60 hanno ormai invaso il mercato, anche se la loro utilizzazione in campo artistico non viene assolutamente presa in considerazione: secondo Walker Evans, ad esempio, il colore è “volgare”, che detto da un nume tutelare del settore suona come una condanna definitiva.
Ma è proprio l’aumento di possibilità espressive offerte da un colore usato ai massimi livelli di saturazione ad affascinare Eggleston, che in principio sceglie come soggetto l’ambiente familiare del Sud degli Stati Uniti: le grandi piantagioni, le vecchie case coloniche, le strade fiancheggiate dai distributori di benzina appaiono già negli scatti del suo maestro Evans, ma l’uso del colore ne modifica totalmente la visione.
Particolari in apparenza insignificanti, come un barbecue in un giardino o un triciclo infantile abbandonato in mezzo a un prato, vengono enfatizzati fino a diventare oggetti quasi surreali e a volte persino un po’ inquietanti.
è con queste immagini che al principio degli anni ’70 Eggleston si presenta al MOMA di New York, tempio sacro dove fino a quel momento le foto d’arte esposte erano sempre in un rigoroso bianco e nero. La sua mostra realizzata nel 1976 è quindi la prima di un fotografo che lavori esclusivamente con il colore, e per quanto possa sembrare eccessivo ritenere che un singolo evento mediatico abbia cambiato la storia della fotografia, non c’è dubbio che a partire da quella data molti altri fotografi inizieranno a sperimentare in questo campo, superando i vecchi limiti dell’immagine artistica.
La produzione di Eggleston si snoda per tutta la seconda metà del ventesimo secolo, arrivando fino ai giorni nostri. Tra il 1966 e il 1974 effettua circa duemila scatti nel corso di alcuni viaggi che hanno come meta la centrale di Los Alamos, dove nacque la prima bomba atomica, con l’intenzione di pubblicarli in una lunga serie di volumi, che però vedranno la luce solo quasi trent’anni dopo. Nel 1976 documenta la campagna elettorale di Jimmy Carter, poi eletto presidente, e nello stesso periodo frequenta assiduamente il Chelsea Hotel, quartier generale di Andy Warhol e del mondo della Pop Art di cui diventa uno dei testimoni.
Seguono anche esperienze cinematografiche, come fotografo di scena sul set di un film di Woody Allen, e lunghi viaggi all’estero che portano alla pubblicazione di numerosi libri.
A metà degli anni ’80 Eggleston trova una definizione sintetica per il suo stile: la sua è una “fotografia democratica”, nel senso che registra ogni oggetto che attiri l’attenzione dell’autore, indipendentemente da un suo valore intrinseco.
In definitiva sono, oltre al colore, lo studio delle luci e delle angolazioni di ripresa a dare valore all’immagine. Non a caso, le due foto più famose di Eggleston sono forse quella di un triciclo che spicca nel giardino di una villetta, colto in modo da sovvertire le sue proporzioni rispetto agli edifici, e quella di un “banale” soffitto rosso solcato da un intreccio di fili elettrici che sostengono una lampadina: a proposito di questa, realizzata come diapositiva, Eggleston ha dichiarato di non averne mai ottenuto una stampa che lo soddisfacesse pienamente riguardo alla resa della particolare tonalità di rosso.
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