Govindarajan e l'education in Italia: la trasformazione possibile?
Ho letto un articolo, scritto da un grande guru dell’Economia, sull’Istruzione negli Usa. La prima riga, pubblicata dal blog di Harvard Rewiew, dice: «Negli Stati Uniti il nostro sistema di Istruzione superiore si è rotto». Chi scrive è Vijai Govindarajan: un paio di anni fa gli è stato attribuito il terzo posto della classifica Thinkers50 dei più influenti guru del pensiero manageriale moderno, vincendo il “Breakthrough Idea Award” grazie alla campagna per ideare la “$300 house”, una casa dal costo di 300 dollari per le persone più povere nel mondo. È uscito da poco il suo libro Reverse Innovation: Create Far From Home, Win Everywhere, nel quale, attraverso una serie di mirabolanti esempi di prodotti, manager, aziende, realtà urbane, imprenditoriali, creative e ancor di più, dimostra che «qualsiasi innovazione che sia dapprima adottata nei Paesi in via di sviluppo e poi esportata a livello globale diventa vincente». È un grande Govindarajan, indiano nato a Madras, ha studiato a Harvard, ma non smette di appassionarsi, e di intravvedere scenari inediti.
Sull’istruzione americana nell’articolo, è molto chiaro: nelle grandi università, specie quelle dell'Ivy League, non si può continuare a far indebitare uno studente per 200mila dollari, per poi non potergli più garantire un posto di lavoro all’altezza di quel debito, che dovrà rimborsare. E sì che l’America di scienziati e innovatori ne ha sfornati parecchi, per non parlare dei premi Nobel, puntando sulla meritocrazia, prima di tutto con investimenti nell’alta formazione e nella ricerca. Tutto troppo lontano dall’Italia.
Ma l’analisi di Govindarajan mi ha sedotto quando ha parlato dei costi della scuola, e dell’università in particolare. Tre pompe idrauliche succhiano le risorse economiche destinate all’Education: la prima è il costo delle lezioni in classe (luoghi e risorse umane), poi i progetti e le attività nei laboratori e, infine, la vita dello studente nei campus.
La prima spesa viva, che pare stia mettendo in ginocchio il sistema americano dell’Education riguarda il costo del lavoro dei docenti. E questo è il problema che abbiano anche noi nella scuola pubblica, che è stato risolto in maniera indecente dalla politica, con tagli traumatici, preceduti da promesse, e seguiti da altre promesse. Un dossier “sensibile” che è oggi nelle mani della ministra dell’Istruzione Maria Chiara Carrozza che ha disposto con decreto 27mila immissioni in ruolo dal 2013 al 2016 con funzioni di sostegno scolastico.
E anche in questo caso seguendo Govindarajan, i rimedi per l’Education tra Italia e Stati Uniti non sono troppo distanti. «Secondo l'American Institute of Physics dal 2010, ci sono circa 9.400 insegnanti di fisica ogni anno negli Stati Uniti. Sono tutti grandi docenti? No. Se mettessimo dieci dei migliori a insegnare fisica on-line e al resto dei 9.390 fosse dato un ruolo di mentori, la maggior parte degli studenti potrebbe ottenere una migliore qualità dell'istruzione? E tutto ciò non porta forse ad abbassare i costi delle lezioni in classe?», scrive Govindarajan e mi suona “familiare”.
Caro Vijai, ma tutti questi docenti di fisica americani sono in grado di insegnare on-line. La questione riguarda il tempo del docente, prezioso e costoso, riguarda una valutazione dello stesso insegnante, e questo è un punto dolente per l’Italia (chi valuta i docenti, e in che maniera?), e un supplemento di formazione, poiché la nostra Education, dalla scuola all’università, non pullula di Digital Native Teacher. È vero, però, che hanno a che fare con gli studenti nativi digitali. Che facciamo, li formiamo, o li lasciamo ai soliti corsi di aggiornamento (quando si fanno) che a detta di tutti, e dei docenti stessi, sono davvero obsoleti?
Govindarajan direbbe: «In a time of crisis the innovation needs to be low cost». Se trasformare dei docenti con una competenza pedagogica classica in geek diventa costoso, guardiamo meglio la nostra realtà. Indaghiamo, e tra tutti i nostri docenti troveremo senza dubbio degli appassionati di tecnologia, di internet, di app, di Learning object, di flipped class, pronti a rivoluzionare i metodi di apprendimento a costo quasi zero. Un giro distratto tra i siti di education italiani riserva delle sorprese: sul sito profdigitale.com, Alessandro Bencivenni, docente e appassionato di tecnologie ed e-learning, ha raccolto una serie di racconti formidabili sulla scuola digitale che esiste già nel nostro Paese, della quale si parla pochissimo, ma che è fatta soprattutto dai singoli docenti. ProfDigitale ha messo on line tool, software e app da scaricare gratuitamente, che possono trasformare una lezione di geografia, di storia, o di matematica in serious game, con somma soddisfazione degli studenti. Non è il solo sito e non è il solo insegnante a far questo.
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I professori che sono usciti dall’università una decina di anni addietro e che hanno avuto quella curiosità e sensibilità alle trasformazioni storiche e sociali sono – se hanno voglia – pronti a ricoprire un ruolo diverso dal prof dietro la cattedra che parla a un gruppo ristretto e distratto di allievi.
Ogni università, ogni scuola potrebbe fare il proprio MOOC, Massive Open On Line Courses, a costi bassissimi. E potrebbe soprattutto integrare le pratiche dei nuovi corsi, messi on line gratuitamente (in parte) da Harvard, da Stanford, e sempre di più dalla Sorbona, dalle università ad alto standard di tecnologia di Madrid a Barcellona, le Business school europee, e dei nostri Politecnici.
Non mi avventurerò in proposte per abbassare i costi dell’Education in Italia, non sono sicura che puntando solo sull’Education 2.0 si risparmierebbero in parte le spese vive delle lezioni frontali, ma credo avverrebbe una trasformazione, un recupero di interesse degli studenti con la possibilità di farli studiare con quegli stessi strumenti che solitamente li distraevano proprio dallo studio e dalla concentrazione. «In classe, lo smart phone deve restare obbligatoriamente acceso». È un bel cambiamento.
Ma è anche una pratica ormai diffusa a tutti i livelli, dalle aziende alla scuola primaria, passando dall’università: B.Y.O.D. è l’acronimo di Bring Your Own Device. Secondo una ricerca di Software & Information Industry Association gli studenti americani che frequentano un corso post diploma portano in aula il proprio tablet, o smart phone o ultrabook (o semplice computer portatile), lo utilizzano per l’attività didattica in rete con gli altri studenti e con i docenti, con percentuali che superano l’80% (sino al 95%), mentre nella scuola secondaria o primaria le percentuali vanno dal 48 al 45%.
Con gli smart phone degli allievi, molti insegnanti in Italia realizzano la loro flipped class. Dal sito ADiRisorse: «Il metodo della Flipped Classroom (letteralmente “insegnamento capovolto”) trasferisce la responsabilità e la titolarità dell’apprendimento dal docente agli studenti. Quando gli studenti hanno il controllo su come apprendono i contenuti, sul ritmo del loro apprendimento, e su come il loro apprendimento viene valutato, l’apprendimento appartiene a loro. Gli insegnanti diventano guide per comprendere piuttosto che dispensatori di fatti, e gli studenti diventano discenti attivi piuttosto che contenitori di informazioni». È uno dei siti dell’Associazione Docenti Italiani, ospitato su una piattaforma dell’Indire, Istituto nazionale di documentazione per l'innovazione e la ricerca educativa.
Sto citando solo alcuni esempi che ho guardato in rete durante il mio lavoro di ricerca: siti pieni di idee, di elaborazioni, magnifiche infografiche, e che mi sembrano molto più ricchi e attraenti di quelli inglesi o americani. Stanno sotto gli occhi di tutti, offrono soluzioni creative per i nostri ragazzi, dai piccoli a chi ha una laurea in tasca ed è in cerca di lavoro. Nel futuro sono necessarie nuove competenze da acquisire con altri strumenti, la rinascita economica dipenderà molto da tutto ciò. Non accadrà domani, la parola ripresa è avvolta nelle consuete nebulose della politica, ma nulla di buono avverrà se i nostri giovani talentuosi non avranno una formazione aggiornata, e se non avranno studiato con entusiasmo, senza incontrare docenti appassionati, visionari, alcuni un po’ folli forse, ma con lo sguardo sognante verso il futuro.
«In time of crisis», dice V. Govindarajan bisogna guardare come hanno fatto quelli che stanno peggio. In India, i bambini delle slum hanno imparato senza docenti, con dei computer istallati in “buchi” nei muri. È l’esperimento “Hole in the Wall” sull’auto-insegnamento, pensato da Sugata Mitra a New Dehli. Eccolo su TED.
L’idea della reverse innovation, ci trasporta in altri contesti, in altri Paesi. «Per sfruttare al meglio le potenzialità dei mercati emergenti, si deve invece andare nella direzione opposta, innovando appositamente per e nei Paesi in via di sviluppo, creando quelle innovazioni che saranno adottate prima in loco e poi esportate in tutto il mondo», scrive nel suo libro Govindarajan.
Anche i Mooc erano stati pensati affinché ragazzi lontani dalle università di eccellenza, o che non potevano accedere per i costi, o altri motivi, a quel livello di cultura, potessero avvalersene liberamente, e invece gli iscritti ai Mooc sono in maggioranza statunitensi, in percentuale il doppio degli iscritti indiani.
Per innovare ed evolvere non sempre sono necessari grandi investimenti, la tecnologia ci viene in aiuto, la creatività e le nuove competenze si possono facilmente condividere. È necessaria una buona organizzazione, e sempre e certamente il rispetto del lavoro di tutti, del valore di chi insegna, di chi si dedica a inventare per le generazioni future. Materiale umano preziosissimo, d’inestimabile valore.
P.S. Però nessun docente “inestimabile” si offenderà quando verrà stimato, retribuito e valorizzato come merita.
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