Goethe e Alessandro Manzoni, storia di un’ammirazione reciproca
Non possiamo dire se quella tra Goethe e Alessandro Manzoni sia stata una vera e propria amicizia, ma di certo tra i due s’instaurò un rapporto di stima profonda e vera.
Fu proprio questo a spingere Goethe a cooperare efficacemente per far crescere la fama di Manzoni in Europa. Lo stesso Goethe infatti scrisse una strenua difesa del Conte di Carmagnola contro le critiche che alla tragedia manzoniana erano state mosse dalla «Biblioteca Italiana» e dalla «Quarterly Review». Sempre Goethe tradusse in tedesco il Cinque Maggio e si occupò di un’analisi dell’Adelchi.
Subito dopo la recensione del Conte di Carmagnola, Manzoni decise di ringraziare personalmente Goethe con la seguente lettera:
*****
A Giovanni Volfango Goethe
Milano, 23 gennaio 1821.
Per quanto screditati sieno i complimenti e i ringraziamenti letterarii, io spero ch’Ella non vorrà disgradire questa candida espressione d’un animo riconoscente. Se quando io stava lavorando la tragedia del Carmagnola, alcuno mi avesse predetto ch’essa sarebbe stata letta da Goethe, mi avrebbe dato il più grande incoraggiamento, e promesso un premio non aspettato. Ella può quindi immaginarsi ciò ch’io abbia sentito in vedere, ch’Ella si è degnata di osservarla tanto amorevolmente e di darne dinanzi al pubblico un così benevolo giudizio.
Ma, oltre il prezzo che ha per qualunque uomo un tal suffragio, alcune circostanze particolari l’hanno renduto per me singolarmente prezioso: e mi permetto brevemente di esporgliele, per motivare la mia doppia gratitudine.
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Senza parlare di quelli che hanno trattato il mio lavoro con aperta derisione, quei critici stessi che lo giudicarono più favorevolmente, in Italia e anche fuori, videro quasi ogni cosa in aspetto diverso da quello, in cui io l’aveva immaginata; vi lodarono quelle cose, alle quali io aveva dato meno d’importanza; e ripresero, come inavvertenze e come dimenticanze delle condizioni più note del poema drammatico, le parti che erano frutto della mia più sincera e più perseverante meditazione. Quel qualunque favore del pubblico non fu motivato generalmente, che sul coro e sull’atto quinto; e non parve che alcuno trovasse in quella tragedia ciò, che io aveva avuto più intenzione di mettervi. Di modo che io ho dovuto finalmente dubitare, che o le mie intenzioni stesse fossero illusioni, o ch’io non avessi saputo menomamente condurle ad effetto. Nè bastavano a rassicurarmi alcuni amici, dei quali io apprezzo altamente il giudizio; perchè la comunicazione giornaliera, e la conformità di molte idee, toglievano alle loro parole quella specie di autorità, che porta seco un estraneo, nuovo, non provocato nè discusso, parere. In questa noiosa ed assiderante incertezza, qual cosa poteva più sorprendermi e rincorarmi, che l’udire la voce del maestro, rilevare ch’egli non aveva credute le mie intenzioni indegne di esser penetrate da lui, e trovare nelle sue pure e splendide parole la formola primitiva dei miei concetti? Questa voce mi anima a proseguire lietamente in questi studi, confermandomi nell’idea che, per compire meno male un’opera d’ingegno, il mezzo migliore è di fermarsi nella viva e tranquilla contemplazione dell’argomento che si tratta, senza tener conto delle norme convenzionali e dei desiderii, per lo più temporanei, della maggior parte dei lettori.
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Deggio però confessarle, che la distinzione dei personaggi in istorici e in ideali è un fallo tutto mio; e che ne fu cagione un attaccamento troppo scrupoloso all’esattezza storica, che mi portò a separare gli uomini della realtà da quelli, che io aveva immaginati per rappresentare una classe, un’opinione, un interesse. In un altro lavoro recentemente incominciato io aveva già omessa questa distinzione; e mi compiaccio di aver così anticipatamente obbedito al suo avviso.
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Ad un uomo avvezzo all’ammirazione d’Europa io non ripeterò le lodi, che da tanto tempo gli risuonano all’orecchio; bensì approfitterò dell’occasione, che mi è data, di presentargli gli augurii più vivi e più sinceri di ogni prosperità.
Piacciale di gradire l’attestato del profondo ossequio, col quale ho l’onore di rassegnarmele…
*****
Poco tempo dopo, a seguito della pubblicazione dei Promessi Sposi, Goethe rinnoverà tutta la sua stima ad Alessandro Manzoni, come riportato da Eckermann nel suo Gespräche mit Goethe:
«I Promessi Sposi superano quanto abbiamo in tal genere. Tutto quel che sia d’animo, tutto quel che viene dal cuore del poeta vi è perfetto: e in tutto quel che è esteriore, come descrizioni e siffatte cose, non la cede d’un punto. Questo libro ci fa passare di continuo dalla tenerezza all’ammirazione, e dall’ammirazione alla tenerezza, in guisa che non si possa giungere più in su. Il Manzoni ha sentimento, ma non mai sentimentalismo: le situazioni sono pure e robuste. Il suo modo di trattare i soggetti è chiaro e bello, come il cielo della sua Italia. Pure, ad un tratto, a proposito della descrizione della guerra, della fame e della peste, il Manzoni lascia a torto la veste di poeta e mostra lo storico nella sua nudità. Allora le sue descrizioni di cose già per sé ributtanti, assumono la secchezza della cronica, e divengono appena tollerabili. Ebbe troppo rispetto per la realtà, e si vorrebbe accorciare quella guerra e quella fame d’un buon tratto, e d’un terzo la peste. Ma appena i personaggi del romanzo ricompaiono, il Manzoni torna nella pienezza della sua gloria.»
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