Gli Usa e il loro triste e pericoloso amore per le armi
23/11/2013: un giorno come tanti, che Gary Younge, corrispondente dagli Usa per il prestigioso quotidiano britannico «Guardian», sceglie come “focus” del suo saggio/inchiesta, Un altro giorno di morte in America, 24 ore, 10 proiettili, 10 ragazzi. Un giorno in cui ben 10 vite – al di sopra della media nazionale che è di quasi 7 – di ragazzi sotto i vent’anni, tutti afroamericani salvo due, sono state spezzate da un’arma da fuoco. Il libro, tradotto da Silvia Manzio e pubblicato da Add edizioni, è il resoconto cronachistico della vita e della morte di ciascuna delle vittime, di età oscillante tra i 9 e i 19 anni, di cui viene analizzato il contesto sociale con stile rigoroso da reporter, rispettoso dei drammi privati che ogni storia porta con sé ma al contempo umanamente partecipe. Un’analisi che si fa a sua volta mezzo di conoscenza dell’odierna società americana.
Per contestualizzare brevemente il libro, sembra utile ricordare che nel 2013 alla Casa Bianca non c’era ancora Trump ma Obama, il quale, dopo il massacro del 17/06/15 nella chiesa di Charleston in South Carolina, ricordando la morte a causa delle armi di oltre 11 mila americani solo nel 2013, in un celebre discorso accusò il Congresso di non aver voluto rispondere con un’adeguata normativa al massacro di 20 bambini nella scuola elementare Sandy Hook in Connecticut, avvenuto nel 2012.
Le storie delle vittime danno all’autore l’opportunità di affrontare temi scottanti, a iniziare da quello che, insieme all’abuso delle armi, è il filo conduttore del libro: la persistente segregazione razzialeda cui Younge, marito nero e di umili origini di un’americana, afferma nella prefazione di sentirsi personalmente coinvolto.
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Sul tema l’autore è tranchant: «L’America è razzista, sul piano giudiziario, economico e sociale». Malgrado la conquista dei diritti civili e politici, non solo il tasso di omicidi tra i giovani neri è quattro volte superiore alla media nazionale e ognuno di loro ha una possibilità di fare una fine violenta 17 volte superiore ai bianchi, gli afroamericani «hanno sei volte più possibilità di essere incarcerati, due di essere disoccupati e quasi tre di vivere sotto la soglia della povertà». Molti attribuiscono ciò alla mancanza di un’adeguata educazione familiare, ma Younge evidenzia quanto sia difficile svolgere al meglio i compiti genitoriali in contesti «dove le scuole sono pessime, le gang ovunque, le droghe e le armi facilmente accessibili, le risorse scarse e le forze dell’ordine inflessibili». L’autore evidenzia inoltre come anche i genitori più attenti spesso non riescano a comprendere i segnali di disagio dei figli adolescenti e, a conferma dei persistenti pregiudizi nei confronti degli afroamericani, cita le statistiche sanitarie secondo cui i padri neri, rispetto a quelli degli altri gruppi etnici, hanno più probabilità di vivere coi loro figli e prendersene cura.
In un contesto internazionale in cui le disuguaglianze sociali e razziali crescono in tutto l’Occidente, ciò che dell’America colpisce particolarmente Younge è l’enorme divario col «sistema di credenze che fonda la nazione», e la “spudorata” negazione che tali disparità esistano. Sebbene nessuna delle vittime del 23/11/13 sia stata uccisa dalle forze dell’ordine o, per quanto se ne sa, da un bianco, il razzismo è evidente anche nell’indifferenza con la quale questi omicidi sono stati trattati dalla società e dai mass media che, mossi dalle loro esigenze di audience, li hanno liquidati in poche righe, trascurando il contesto in cui sono maturati.
Prototipo del razzismo è per Younge la città di Dallas che, nella prima metà del ‘900, ha modificato il suo atto costitutivo per permettere ovunque la segregazione razziale, dalle scuole all’accesso alle cariche pubbliche, e solo negli anni Novanta ha permesso l’instaurarsi di un’autentica democrazia rappresentativa di tutte le etnie.
Ma i temi affrontati sono molti altri.
C’è in primo luogo, sullo sfondo di una tragica subcultura della strada e della morte che spinge ragazzi “colpevoli” di appartenere a una certa razza, di essere nati in certe famiglie e vivere in città «prigioni a cielo aperto», a rassegnarsi a un futuro senza alternative diverse dalla prigione e dalla morte precoce, l’approfondimento di quello che è il deus ex machina della narrazione, l’“amore” americano per le armi, tutelato dal II emendamento della Costituzione Usae radicato nello «spirito di frontiera». Uno spiritoparticolarmente sentito nel Sud e nelle aree marginali, che rende forte la National Rifle Association, la lobby dei produttori e venditori di armi messa sotto accusa da Younge, e ha come corollario, insieme alla mancanza di una seria volontà oppositiva da parte di una politica più tesa all’autoconservazione che alla tutela della collettività, la facilità con cui le armi possono essere comprate e usate.
C’è un altro problema sociale che contribuisce molto alla violenza armata, il proliferare delle gang, in certi quartieri le sole capaci di garantire protezione contro la violenza e di dare a tanti ragazzini senso d’identità e di appartenenza. Nel 2012 negli Usa erano circa trentamila, con un potere attrattivo dovuto a varie ragioni, dalla paura al semplice spirito imitativo e,tra il 2007 e il 2012, il numero degli omicidi a esse collegabili si è impennato del 20% e «a quanto pare la ragione principale dell’aumento della letalità delle loro attività è l’accessibilità delle armi da fuoco».
Un altro giorno di morte in America, 24 ore, 10 proiettili, 10 ragazzicontiene inoltre le analisi “socio-psicologiche” dell’adolescenza, investita da un «processo biologico che porta alla riduzione della paura», edel tragico circolo vizioso innescato dalle morti violente, iniziando dalla difficoltà di parenti e amici di elaborare il lutto della perdita ma anche dall’insensatezza dell’accaduto e dall’indifferenza con cui è stato accolto da società e istituzioni.
Ci sono gli approfondimenti “socio-politici” delsistema giudiziario penale americano, definito da Jill Leovy «oppressivo e inadeguato» e della distorsione della realtà operata dai media e in particolare dai social network, soprattutto se dei loro contenuti viene data una lettura pregiudiziale, volta a supportare dati stereotipi. Ma ancora più in evidenza è lo stretto legame tra le morti dei 10 ragazzi e la povertà, perché le probabilità che i figli di chi può garantire loro buone scuole, attività ricreative, se necessario tutela previdenziale e legale e molto altro, muoiano da ragazzini in modo violento sono drasticamente inferiori rispetto ai figli di chi, non avendo tali possibilità, non può offrire loro gli strumenti per “sognare”, reiventandosi la vita.
Le vittime del 23/11/13, solo per metà delle quali sono stati individuati i presunti colpevoli,sono le seguenti: il solare Jaiden Dixon di soli nove anni, uccisodal padre-padrone; il già “potente in strada” diciottenne Tyshon Anderson; il gioioso undicenne Tyler Dunn e l’impulsivo sedicenne Edwin Rajo, involontariamente uccisi dai loro amici col fucile paterno che pensavano scarico; il solitario sedicenne Samuel Brightmon; il vivace diciassettenne Stanley Taylor, ucciso per una banale disputa; il diciottenne quasi cieco Pedro Cortez, la cui morte ha avuto risonanza nei media perché ucciso in un quartiere «dedicato a famiglie con bambini»; il “predestinato” diciannovenne Kenneth Mills-Tucker, circondato dalle recenti morti di ben tre amici; il diciottenne Gary Anderson, scambiato per un altro; il diciottenne appena diplomato Gustin Hinnant.
La morte che ha suscitato le più aspre polemiche sui social è quella del piccolo Tyler, perché ha dimostrato il pericolo insito nella semplice detenzione in casa di armi non sotto chiave; pericolo che è più volte sfociato in proposte di legge volte a obbligare i proprietari a tenerle in condizioni di sicurezza, mai andate in porto anche per l’opposizione della potente Nra, secondo cui la difesa personale in casa ne verrebbe impossibilitata.
Nel desolante quadro offertoci da Younge un piccolo spiraglio di speranza è costituito dalle tante associazioni, benefiche o che lottano contro la violenza armata, come “Madri per il controllo delle armi in America”, “Salviamo i nostri figli e le nostre figlie” o il “Mymoc” di Mario Black, appassionato educatore comportamentale in una scuola, ma la loro è troppo spesso una lotta impari, condotta con budget ristrettissimi e senza adeguati appoggi sociali e istituzionali.
L’inchiesta di Younge è in definitiva un grido d’indignazione, «triste e straziante» come scrive lui stesso nella postfazione, contro l’incapacità della più grande potenza del mondo, che ha sempre voluto accreditarsi come paladina dei diritti civili, di proteggere i suoi figli più fragili e farsi promotrice della cultura della vita contro quella della morte. Un grido volto a sensibilizzare l’opinione pubblica su quanto poco viene fatto affinché le cose cambino
«Una migliore istruzione, più servizi per i giovani, posti di lavoro con retribuzioni sufficienti per vivere, centri di salute mentale, programmi di sostegno psicologico post-traumatico, un sistema di giustizia penale equo – insomma più opportunità e meno rassegnazione – contribuirebbero a creare un clima in cui queste morti sarebbero meno probabili. […] Quello che rende la società statunitense tanto letale è la diffusione delle armi.»
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Un grido che spinge a chiedersi dove sia finito il grande Sogno americano. Forse insieme a Jayden, Tyson, Tyler, Samuel, Gustin, Edwin, Stanley, Pedro, Kenneth, Gary e a tutti coloro che li hanno preceduti e seguiti?
Comunque la si pensi in tema di armi e sogni, non si può che essere riconoscenti a Gary Younge e all’intellettualmente onesto quanto emotivamente intensoUn altro giorno di morte in America, 24 ore, 10 proiettili, 10 ragazzi per aver restituito a quei nomi senza volto, insieme alla memoria, quella dignità che né le brevi vite né le fulminee morti avevano permesso loro di vedersi riconosciuta.
Per la prima foto, copyright: Laura Marques.
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