“Gli sdraiati” di Michele Serra: un darwinismo sgomento
Il darwinismo è stato utilizzato per spiegare molti cambiamenti vissuti dall’homo sapiens negli ultimi 150 anni. La nostra specie è in continua evoluzione, adattandosi alle variazioni ambientali e comportamentali in cui si trova immersa. Non è saggio, ci direbbero i darwinisti ortodossi, tentare di contrastare questo processo che comunque troverà uno sbocco, più o meno violento a seconda della resistenza che incontrerà sulla propria strada. E, se ci sono voluti circa 1.500 anni dalla prima lanterna ad aria calda cinese (III d.C.) al primo volo in mongolfiera (1783), sono bastati solo 80 anni per passare dal primo cortometraggio cinematografico (1888) al primo test di videotelefonia (1964), a dimostrazione che i tempi evolutivi si sono drasticamente ridotti e che l’uomo è capace di passare dal sogno alla sua realizzazione in tempi infinitesimali. Dove poi porti questa “evoluzione” è un interrogativo che si stanno ponendo in molti negli ultimi anni.
Dall’ormai abusato concetto di società liquida di Zygmunt Bauman, alla barbara attenzione alla superficie delle cose osservata da Alessandro Baricco in uomini che hanno mutato profondamente il nostro modo di vivere (Larry Page e Sergey Brin, inventori di Google, o Steve Jobs, creatore della Apple e della sua touch-generation), si cercano e si delineano di continuo nuovi sistemi generazionali e comportamentali spesso autoreferenziali.
In questo ginepraio di regole e nella loro violazione si è intrufolato anche Michele Serra che con il suo ultimo romanzo, Gli sdraiati (Feltrinelli, novembre 2013), crea un dialogo mono-direzionale, in tipico stile Facebook, con il figlio adolescente, in cui non vi è sfumatura o punto di vista all’infuori di quelli dell’io narrante. Sua l’immagine che abbiamo del figlio stravaccato sul divano in mutande, che non parla con lui, che è orridamente multi-device (ossia capace di utilizzare contemporaneamente pc, ipod, televisione e palmare), ma probabilmente non multi-pensiero. Un personaggio che diventa spesso caricatura eccessiva e monosillabica di uno dei tanti ragazzi “cuffiettati” e “spantalonati” che potremmo incontrare su un qualsiasi mezzo pubblico della nostra città, tanto da spingere il lettore più di una volta a chiedersi se, superata la scoppiettante verve descrittiva di Serra che a volte gigioneggia con sé stessa, il messaggio che l’autore ci sta offrendo sia quello dell’impossibilità di un dialogo fra i suoi pari e i barbari “giovinastri” accampati al di là delle sue mura.
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Serra è un uomo intelligente e quindi non possiamo accettare questa ipotesi. Ma allora? Non capiamo cosa ci voglia offrire con Gli sdraiati. Un semplice divertissement sul gergo adolescenziale? La dimostrazione che anche la generazione pre-touch può rivelarsi assai abile nel non ascoltare nessuno che non sia sé stessa? La capacità dell’autore di parlare a ruota libera di sé e delle proprie insoddisfazioni, come tutti i “barbari giovinastri” social-dipendenti, senza porsi il problema di verificare se qualcuno è in ascolto? O forse Serra vuole dimostrare che Baricco aveva ragione quando diceva che la mutazione è in atto da tempo, e che anche chi prima non era un adulatore della superficialità lo è poi diventato?
Domande. E un romanzo deve porle. Domande cui l’autore non risponde. E se il lettore, sperando in una svolta che trasformi Gli sdraiati da un ottimo articolo in un romanzo, potrebbe accettare all’inizio le posizioni apocalittiche dell’io narrante e le sue continue richieste di attenzione offerte a un figlio indifferente, alla fine del libro si sente come se avesse fatto zapping, anzi surfing, fra alcune idee senza essere riuscito ad approfondirle. Ma probabilmente tutto dipende dal lettore. Io, per esempio, che ho un nome che proprio corto non è, mi devo arrendere al dogma fonemico di Serra, che ci rivela che con un nome oltre le due sillabe oggi non si arriva da nessuna parte.
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