Gli scrittori: alcolisti non anonimi
«Write drunk; edit sober», consigliava Hemingway, lui che si alimentava a Mojito e Daiquiri e che è stato una presenza fissa nei "peggiori bar" dell'Avana. L'autore de Il vecchio e il mare è solo uno dei tanti scrittori vittime della bottiglia, esempi di genio e sregolatezza, ma anche di depressione e cirrosi epatica.
Da maratoneta salutista Murakami si è ormai rassegnato: «Gli scrittori che mi piacciono, chissà per quale ragione, erano quasi tutti alcolisti. Fitzgerald, Raymond Carver, Chandler, Hemingway, Faulkner...».
Discutibile coadiuvante alla scrittura e, al tempo stesso, rifugio fittizio dettato dal male di vivere, l'alcolismo è stato la rovina di alcune delle migliori penne del secolo scorso.
Stephen King è decisamente tranchant: «Hemingway e Fitzgerald non bevevano perché erano creativi, diversi o moralmente deboli. Bevevano perché è quello che fanno gli alcolisti. Probabilmente è vero che le persone creative sono più vulnerabili di altri all'alcolismo e alla dipendenza dagli stupefacenti, e allora? Siamo tutti uguali quando vomitiamo ai bordi della strada».
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Oltre a Hemingway, che finì per suicidarsi in preda a crisi maniaco-depressive, l'abuso di alcol ha fatto parecchie vittime illustri fra i suoi colleghi statunitensi.
Nonostante i tentativi e i ricoveri per sconfiggere la sua dipendenza, Francis Scott Fitzgerald continuò a bere fino alla morte, avvenuta per arresto cardiaco. Non riuscì a liberarsi del vizio neppure Truman Capote, il quale affiancò all'alcolismo anche la tossicodipendenza: morì di cirrosi epatica nel 1984. Stessa morte per Jack Kerouac, angelo maledetto della Beat Generation, il quale iniziò a bere giovanissimo. Come Bukowski, forte bevitore già dall'adolescenza.
Sedotti dall'alcol anche Faulkner, Poe, Carver e Chandler, il quale, però, fu abbastanza lucido (o cinico) per osservare che «L'alcol è come l'amore: il primo bacio è magico, il secondo è intimo, il terzo è routine. Dopo di che, spogli la donna e basta».
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