Gli ebrei, capri espiatori per sempre? “Da duemila anni” di Mihail Sebastian
Il 27 gennaio, la data della liberazione di Auschwitz, è il momento in cui si celebra la giornata della memoria per ricordare le vittime dei campi di sterminio nazisti. Un orrore devastante che dovrebbe ancora scuotere le coscienze di chi abita “le tiepide case” (come scriveva Primo Levi), per meditare che niente è stato più come prima (era Adorno a dire che non si sarebbe più potuto scrivere poesie).
La domanda, soprattutto in questo periodo in cui il fascismo, il razzismo, l’antisemitismo riprendono piede, è comunque sempre la stessa: come è potuto accadere? Quali entità malvagie sono entrate in azione per uccidere, devastare, annientare quasi del tutto la comunità ebraica europea (oltre naturalmente a un ingente numero di disabili e zingari)? Il nazismo è stato un frutto estemporaneo del secolo breve, originato dallo scontro ideologico tra fascismo e comunismo, oppure il terreno era già ampiamente pronto ad accogliere i volenterosi carnefici di Hitler?
I Pogrom, le devastazioni e i saccheggi contro le comunità ebraiche erano pratica corrente nell’Impero Russo degli Zar e venivano tollerati, se non favoriti dalle autorità, così da incanalare lo scontento della popolazione per le cattive condizioni economiche. Gli ebrei dopo l'Olocausto vennero perseguitati anche dall’Unione Sovietica di Stalin per il loro “cosmopolitismo”. A Vienna Hitler fu certamente influenzato dallo sfrenato antisemitismo, per motivi soprattutto di consenso elettorale, del sindaco Karl Lueger che guidò la capitale nel primo decennio del Novecento. In Francia il militare alsaziano Alfred Dreyfus venne accusato di essere una spia al soldo dell’odiata Germania (il celebre “Affaire Dreyfus” che costò forse la vita a Emile Zola, il quale scrisse il famoso “J’accuse” in favore del militare). Nel romanzo La vita davanti a sé di Romain Gary, la straordinaria Madame Rosa, la figura femminile della storia, di notte è trafitta da incubi nei quali rivive i momenti in cui circa tredicimila ebrei francesi vennero rastrellati e raccolti dentro il Velodrome d'Hivernella Francia di Vichy.
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Da duemila anni,il romanzo dello scrittore rumeno Mihail Sebastian che Fazi manda in libreria (la traduzione è a cura di Maria Luisa Lombardo), recita così: «l’antisemitismo è universale ed eterno. Non sono solo i romeni ad essere antisemiti. Sono antisemiti anche i tedeschi, gli ungheresi, i greci, i francesi, gli americani. Tutti, assolutamente, tutti, nel loro quadro di interessi, con i loro metodi, con i loro temperamenti».
Sebastian è vissuto negli anni in cui la Romania stava passando sotto la spietata dittatura del maresciallo Antonescu e delle Guardie di Ferro, il suo braccio armato. L’antisemitismo era uno dei tratti più evidenti del suo regime (il maresciallo sarà dichiarato colpevole e giustiziato per aver fatto deportare ed eliminare quasi quattrocentomila ebrei e circa undicimila zingari) e il romanzo di Sebastian, una sorta di diario narrativo di uno studente ebreo dell’Università di Bucarest negli anni Venti, sa rendere molto bene l’atmosfera cupa, da caccia alle streghe che dovevano subire “gli assassini di Cristo”.
La prima cosa che colpisce è la durezza della vita sociale; cose banali, quotidiane come andare ad assistere a una lezione universitaria diventavano dei veri e propri atti di coraggio con gli ebrei fatti oggetto di schiaffi e pugni: «Per strada mi ha fermato Marcel Winder per dirmi che l’hanno pestato di nuovo. È l'ottava volta questa, mi ha detto senza precisare se si trattasse dell'ottava batosta o dell'ottava ferita. Difatti aveva un livido nero sotto l'occhio sinistro... L'altro ieri gli hanno persino ridotto il cappello a brandelli, e questo lo rende del tutto superiore nel cammino del martirio.»
Il protagonista è però un solitario, un ragazzo che disprezza quello che lui chiama il “compatimento ebraico” («Non di rado ho invidiato la vita semplice degli ebrei del ghetto, con la loro fascia gialla sul braccio. Un’idea umiliante, forse, ma comoda e decisa»). In questi momenti drammatici il ragazzo si aggrappa alla lezione di un professore d'economia in una piccola aula al secondo piano dell'Università: Ghiţă Blidaru (per la capacità oratoria e la composizione “sinfonica” dei suoi discorsi il professore assomiglia quasi a un artista per il quale il protagonista sente l’irresistibile impulso di sottomettersi, con un sentimento non di resa, ma «di realizzazione, di reintegrazione»). La sua carriera ha un’improvvisa svolta proprio grazie alle sollecitazioni del professore che lo convince ad abbandonare la facoltà di giurisprudenza per quella di architettura («quello che più adoro dell’architettura è la progressiva semplificazione delle idee, la strutturazione del sogno»). Il ragazzo è un uomo dalla forte inquietudine, inquietudine che si riflette anche nell’oscillazione tra i suoi due mentori (uno naturalmente è Blidaru, l’altro è l’architetto Mircea Vieru), simboli di quel contrasto di cui è pervasa la stessa cultura rumena: «con l’Occidente o con l’Oriente, con l’Europa o con i Balcani, con la civiltà cittadina o con lo spirito rurale».
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Gli accenti più veri, più autentici e struggenti del libro solo quelli nel quale il protagonista descrive la sua patria/casa simboleggiata dal grande fiume: il Danubio. Il libro di Sebastian uscì negli anni Trenta con l’introduzione del filosofo Nae Ionescu, uno dei maestri di Mircea Eliade e alter-ego reale della figura di Blidaru, il quale nel 1934 era passato nelle file della Guardia di Ferro. Le parole scritte da Ionescu erano spiccatamente antisemite e crearono imbarazzo e sconcerto in Sebastian, che comunque alla fine accettò di darle in stampa: a riprova che l’inquietudine del protagonista del libro era la stessa dello scrittore.
Mihail Sebastian, sopravvissuto fortunosamente all’occupazione nazista del Paese, morì investito da un camion dell’Armata Rossa pochi mesi dopo la fine della guerra. Uno dei “grandi rumeni” del Novecento, Emil Cioran, lo ricordava così: «Sebastian era appena stato nominato addetto culturale a Parigi... Avrebbe fatto una grande carriera, perché è difficile immaginare un rumeno più francese di lui. Che cervello fine; che uomo ammirevole e tormentato!»
Per la prima foto, copyright: Moritz Schumacher.
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