Gli angoli bui della bellezza. “Il giardino delle delizie” di Joyce Carol Oates
Il giardino delle delizie di Joyce Carol Oates è un ampio romanzo di oltre cinquecento pagine, descritto, nel sottotitolo, come un’Epopea Americana. Pubblicato da ilSaggiatore e tradotto da Francesca Crescentini, è frutto di una riscrittura, portata a termine nel 2002, di un romanzo pubblicato dalla Oates nel 1965, e immaginato dall’autrice «come il primo volume di una trilogia informale di romanzi dedicati alle classi sociali più diverse, focalizzata sui giovani americani alle prese con il proprio destino».
La storia è imperniata su un unico personaggio – Clara Walpole, figlia di braccianti senza casa nell’America della Grande Depressione – e divisa in tre parti, ciascuna delle quali porta il nome dell’uomo più importante in un periodo della vita di Clara: il padre Carleton, il primo amante Lowry, il figlio Swan.
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I protagonisti dell’epopea non sono eroi dalle gesta leggendarie, ma figure tenaci che cercano di sopravvivere, di venire a patti con circostanze ostili e incomprensibili, traendone il meglio che possono. Carleton e Pearl Walpole sono una giovane coppia di contadini costretti a lasciare la fattoria dei genitori nel Kentucky per pagare un debito contratto con un parente. Così viaggiano come braccianti di stato in stato, impiegandosi come raccoglitori di ortaggi ora in una fattoria ora in un’altra, sopravvivendo a malapena, non riuscendo mai a ripianare il debito e a tornare indietro. Nascono bambini, uno dopo l’altro, ma tanto meglio: i bambini hanno le dita sottili e possono raccogliere gli ortaggi più piccoli. Anche se il lavoro minorile è proibito, la polizia non darà fastidio.
Vivendo nella sporcizia, tra fango e scarafaggi, con la schiena spezzata, Carleton e Pearl si abbrutiscono sempre di più e come tanti loro compagni di strada sono destinati alla malattia, l’omicidio, la follia e la morte. È solo della loro figlia più piccola, Clara, che si raccontano le avventure nelle ultime due parti del romanzo. A differenza dei genitori, Clara non è nata in una fattoria, ma sulla strada, ed è «feccia bianca» in tutto e per tutto. È bella e furba come il padre, ed è per questo che riesce ad andare avanti, affidando le sue sorti a quattro uomini diversi, secondo le necessità che si presentano negli anni.
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Nel momento centrale della sua vita, la scaltrezza e l’amore per il figlio Swan la spingono a rinunciare all’amato Lowry (l’uomo che la toglie dalla strada ma è come lei «feccia bianca», quindi inaffidabile) e a tentare la scalata sociale come moglie di Revere, ricco proprietario terriero. Swan è il centro dell’ultima parte del romanzo, il figlio in cui Clara ha riposto tutte le speranze. La sua intelligenza e spregiudicatezza riusciranno forse ad assicurare a lui e la madre un posto definitivo nella buona società di Hamilton, New York, facendone dimenticare le origini nomadi.
Il romanzo è possente, trascina il lettore con i protagonisti dell’Arkansas alla Florida, al South Carolina. Clara e il padre Carleton, Lowry e Swan sono figure affascinanti perché enigmatiche, mosse da qualcosa di più dell’istinto di sopravvivenza. Mentre lotta per mantenere in piedi la famiglia, Carleton continua a sentire passioni, ad amare la moglie instupidita, a invidiare chi tra i suoi compagni di sventure ha ancora speranze di una vita più facile. La scena in cui lo vediamo impazzire suscita pena perché è pervasa da un senso di ineluttabilità. Di Lowry non capiamo fino in fondo né l’inquietudine perenne né la natura del sentimento che lo lega a Clara, mentre di questa ci conquistano i momenti di allegria immotivata e di trasporto improvviso per le altre donne, gli uomini, le cose. Quando, invecchiando, Clara diventa puro calcolo, perde ogni fascino nonostante sia ancora bella. Il personaggio più inafferrabile è Swan, bello e distante, crudele come un cigno. Fino alla fine, non è chiaro quale sentimento lo domini, se l’amore, l’odio, o l’indifferenza.
La lingua tenta di esprimere il ribollire di rabbia, aneliti e desideri insopprimibili nella testa dei protagonisti. Riflessioni disperate si mescolano a invettive e parolacce, creando un ritmo e una tensione che non mollano la presa.
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Le scene che forse restano più impresse nel lettore sono quelle nomadi, nella prima parte del romanzo. Scene dure e drammatiche: l’incidente che sbalza i Walpole da un furgone di braccianti, e la nascita di Clara a complicare le cose, la rissa tra Carleton e il migliore amico Rafe, la gita di Clara ragazzina in città. Per i Walpole, tuttavia, nessun momento è da ricordare, perché la loro vita è solo un susseguirsi di giorni, caotico e insensato. Carleton «non prov[ava] neanche a calcolare per quanto tempo lui e Pearl avessero cercato dei lavori saltuari come braccianti, per quante stagioni. Erano come le carte in un mazzo: mischiate insieme, senza un ordine. Provare a ricordare non aveva senso perché non c’era niente da ricordare. Come sedersi sul retro del furgone a guardare la strada che si snodava. Vedere dov’eri stato, non dove stavi andando».
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Un sottofondo di dolore intacca anche il racconto della vita indipendente di Clara, una volta scappata dalla famiglia d’origine. Le gite con Lowry in giornate piene di sole, il lavoro da commessa e le feste con le amiche, la cura del giardino nella nuova casa: sono le scene più luminose, e ogni cosa è piena di promesse, prima del matrimonio con Revere, quando tutto si fa cupo e sinistro.
Nella casa di Revere, Il giardino delle delizie, è il rifugio di Clara, la sua ricerca di sicurezza, bellezza, tranquillità. Joyce Carol Oates ne mostra gli angoli bui.
Per la prima foto, copyright: Valentina Locatelli.
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