Giovani che si riprendono la loro vita. “La stagione della Strega” di James Leo Herlihy
La stagione della Strega è l’ultimo libro scritto da James Leo Herlihy, vincitore di ben tre premi Oscar nel 1969 per il film Un uomo da marciapiede. Pubblicato dalla casa editrice Centauria nella traduzione italiana di Massimo Gardella, è un romanzo ambientato in un’America di fine anni Sessanta ospite di una delle manifestazioni più importanti per la cultura hippie: il festival di Woodstock.
«Cara mamma,
me ne vado di casa perché sono incazzata. Ho perso l’appuntamento con Woodstock ma non perderò quello con la mia vita, non importa se non sei d’accordo. Prima di tutto, la ragione stessa per cui è nato quell’evento siete tu e altre cento milioni di madri come te. È improrogabile che la terra si salvi dalle vostre grinfie letali e conservatrici prima che riusciate a devitalizzarla completamente. Sono stufa marcia di abitare in questa casa e fingere di essere tua figlia solo perché mi hai dato alla luce. Ho visto chiaramente sotto effetto dell’acido che io sono tua madre e tu una ragazzina perfida, sconsiderata, viziata ed egoista. Ne ho fin sopra i capelli del tuo atteggiamento cieco, criminale, fasullo, aggressivo e dominante, così ho deciso di lasciarti da sola a crogiolarti in questo palazzo di plastica, che ha sempre rappresentato qualcosa più per te che per me.»
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A parlare, in uno dei primi capitoli del libro, è Gloria, la protagonista nonché “strega” del romanzo in procinto di scappare da casa assieme a John, suo fedele amico e compagno d’avventura. Le motivazioni che animano i due giovani sono differenti, la prima vuole infatti rintracciare il padre e, più o meno esplicitamente, entrare in contatto con delle precise mosse culturali che andavano atteggiandosi in quegli anni a New York; il secondo invece si rifiuta di arruolarsi nell’esercito americano, impegnato nella guerra vietnamita. Entrambi però sono accomunati da una spiccata abilità nell’alternare momenti in cui sembrano non avere particolari capacità di giudizio con slanci di riflessione indicatori di una maturità e profondità notevoli. Ma Gloria non è solamente il personaggio principale del romanzo, è anche il perno narrativo attorno al quale ruota una misurata costellazione di personaggi, un coro polifonico di voci annunciatore di una cultura che lei stessa voleva sposare, antitetico rimedio a quei valori deplorevoli che avevano fatto precipitare l’America, al cospetto di innumerevoli occhi muti, in un profondo baratro di violenza e malcontento represso. In un’ipotetica lista di personaggi positivi e negativi, i due ragazzi non troverebbero una collocazione precisa, sono molto spesso sballati da droghe diverse, sempre alla ricerca del contatto con realtà umane degradate, polarizzano attorno a loro un complesso sistema di ragione e ribellione in cui risulta impossibile definire nette categorie tra ciò che è bene e male, tra il lecito e l’illecito: indomabile adolescenza di una categoria umana.
«Poi, seduta a osservare la strada e odiando tutti quelli su cui puntavo lo sguardo, mi venne in mente il finale di un sogno che facevo una volta. Niente di speciale, cerco di gridare ma non riesco perché mi manca la voce.»
Nell’area di una cornice intarsiata dalla ricerca del padre, un pennello mosso da un urlo muto dipinge una tela che si colora di numerose tonalità, ben poco spazio per la purezza e l’innocenza perduta velocemente da un’intera generazione, largo uso di figure astratte e corrotte dallo spazio perché così è stata deformata quella realtà che dei ragazzi cercano di riprendersi; badiamo bene, nella narrazione progressivamente entrano anche voci radicate già da tempo in quel preciso contesto rappresentato dalla metropoli newyorkese, come a voler ricreare, in un complesso gioco di microsocietà tessute, il coinvolgimento dell’individuo in quella stessa società che, a detta anche del padre di Gloria, se dapprima salva poi inghiotte l’anima, distruggendo ogni songo. E il continuo altalenare tra realtà e dimensione quasi onirica non è altro che la volontà di evasione da un mondo che inizia a essere troppo stretto. Non trascurabile è la forte influenza che questo viaggio avrà per la formazione dei componenti del sistema narrativo, al lettore rintracciare le venature di un romanzo di formazione. Forte è anche la componente dissacrante e comica che accompagna la narrazione, espediente utilizzato per rendere ancora più vivido il paesaggio in cui la storia è calata.
Siamo stanchi di diventare giovani seri,
o contenti per forza, o criminali, o nevrotici:
vogliamo ridere, essere innocenti, aspettare
qualcosa dalla vita, chiedere, ignorare.
Non vogliamo essere subito già così sicuri.
Non vogliamo essere subito già così senza sogni.
Lettere Luterane – Il progresso come falso progresso, Garzanti, Milano, 1976
In questo frammento, facente parte di una raccolta di scritti destinati ai giornali, Pasolini ha ancora una volta immortalato su carta quegli strali, figli anche di quel mondo descritto da Herlihy e diretti verso una società vittima del conformismo, a tal punto insanabile che lo stesso scrittore se prima si era trovato ad appoggiare la causa delle rivolte del Sessantotto, in un secondo momento le additerà come prodotto di una nuova borghesia, il progresso si è pertanto trasformato ben presto in un falso progresso. È pur sempre testimonianza però di un malcontento profondo, della volontà di reinserire nell’immaginario collettivo lo spazio alla riflessione profonda, all’errore quale momento formativo, alla speranza: insomma a non cadere nel tranello delle emozioni scontate o indotte.
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Spingendoci ancora oltre il libro, proviamo a usarlo come chiave interpretativa per quanto abbiamo visto accadere di recente su giornali, televisioni e riviste, ovvero lo stagliarsi di figure giovanissime (basti pensare al discorso di Greta Thunberg) in un panorama internazionale che ancora una volta appare desolante per almeno due ragioni principali – che poi a ben vedere sono i fili conduttori de La stagione della Strega – : il ragionare solo in termini meramente econometrici, e la strumentalizzazione plurilaterale per interessi e fini propri. Ecco, forse a far parlare il libro non è tanto la sua trama, il suo stile o i suoi personaggi, ma l’agghiacciante aderenza a quanto ci circonda, un monito lasciato ai posteri per permetterci di calibrare il margine d’intervento per smascherare i falsi progressi e per cercare, ancora una volta, di riparare i nostri danni, incorporando anche quelli di chi ci ha preceduto.
Per la prima foto, copyright: Vince Fleming su Unsplash.
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