Giorno del ricordo: l’Istria nella coscienza storica italiana, dalle foibe all’esodo
In questo giorno, il ricordo è steso sul tavolo e ha forma di carta geografica, delinea i confini di vite strappate o perdute e ha il suono vibrante di un aggettivo che oggi spesso ci lascia perplessi, ma che nell’Istria del 1943 suonava cristallino: “italiano”.
L’aggettivo trovava riparo sicuro in due nomi: identità e appartenenza, scritti a dispetto dei secoli e delle dominazioni. «Italiana di lingua e di sentimenti» si definisce Mercede, esule istriana in Veneto, 99 anni lucidissimi di dignità, coraggio, equilibrio e misura verso la Storia e il destino che questa disegnò per lei. «Sotto l’Austria la mia mamma, nata nel 1883, frequentò scuole italiane, che non vennero chiuse come accadde invece con l’arrivo di Tito». Uno dei primi sintomi sociali del processo di denazionalizzazione dalla presenza italiana in Istria fu proprio la discriminazione linguistica nelle scuole, dove all’improvviso furono obbligati a convivere alunni di cultura italiana e slava privi degli strumenti di mediazione mirati alla comprensione reciproca e all’integrazione. Si creò così un’intera generazione di analfabeti di entrambe le nazionalità, mentre gli insegnanti che, come Mercede, si rifiutarono di trasformare il proprio lavoro in strumento di propaganda del regime di Tito furono allontanati, perseguitati, uccisi. La sua esperienza scolastica nella zona B del Territorio libero di Trieste, amministrato dalla Yugoslavia, durò soltanto 15 giorni, nell’autunno del 1945; poi anche quegli anni di insegnamento incarnati nell’amore per la scuola del paese ingrossarono la porzione di vita che fu obbligata ad abbandonare.
La fratellanza che Tito avrebbe voluto stringere con gli italiani dell’Istria in realtà li stritolava: nulla sarebbe stato tollerato se non una totale, cieca adesione alle direttive del regime. L’alternativa era la persecuzione, oppure l’esilio. D’altra parte chi partiva e veniva spogliato di tutto generava anche perdite incolmabili nell’agricoltura, il commercio, l’artigianato, la pesca. Si cercò di contenere l’Esodo rendendo più difficili agli italiani i tramiti burocratici per l’espatrio, concedendo il visto solo ad alcuni membri di una stessa famiglia, in modo da obbligare tutti a rimanere. La persecuzione rafforzò la volontà di andarsene, anziché mitigarla; la rese profonda e risentita a un punto tale che i primi a partire riuscirono a dissotterare in fretta le bare dei congiunti e a portarle con sé. «Dopo le prime fucilazioni avvenute a Villanova, noi italiani ci siamo uniti di più», ricorda Mercede. Il circolo vizioso della denazionalizzazione mirava a cancellare ogni traccia della presenza italiana sul territorio, ma al tempo stesso rimaneva fortemente mutilato dalla sparizione totale di un gruppo nazionale articolato, radicato, fecondo, attivo. È forse questa la vera tragedia dell’Esodo giuliano, ben oltre le cifre -difficilmente quantificabili -e perfino oltre i crimini delle foibe. «Arrivavano notizie che i titini, nei paesi limitrofi, portavano via i carabinieri, i maestri, il sindaco, tutti quelli che in un certo modo, soprattutto intellettuale, potevano influire sulla popolazione esaltando l’italianità. Venivano per le case a portar via la gente, colpivano i simboli della società italiana. Mio padre era segretario comunale e in una notte buttarono in strada tutto l’archivio anagrafico e gli dettero fuoco. Avevo una nipote malata di tifo che non potemmo curare perché il medico e il farmacista erano scappati».
Tentare di seguire le regole della fratellanza era come camminare sulla lama di un coltello: «Bastava poco, valeva qualsiasi pretesto. E quando non trovavano altre scuse, ce n’era sempre una infallibile: siete fascisti. Vivevamo in un doppio terrore fin da prima dell’8 settembre: i tedeschi da un lato, che dettavano le regole di giorno, e i titini dall’altro, che venivano a bussare alle case di notte». Com’era fragile, inintellegibile la barriera tra un comportamento autorizzato e uno illecito. La persecuzione esplodeva, spesso senza motivi evidenti, nelle piccole crepe e si insinuava feroce in ogni fovea (foiba, dal latino), le bocche voraci delle aree carsiche in cui vennero gettate le vittime della denazionalizzazione titina nell’autunno del ’43 e nella primavera del ’45, le due grandi ondate di repressione di massa.
È con grande reticenza che le chiedo delle foibe, forse perché nelle ultime settimane mi sovrasta il senso di una violenza umana che si ripete cieca e sorda a ogni insegnamento della Storia e non vorrei parlare proprio con lei di altro sangue. «Le persone che sparivano dai paesi venivano portate in prigione a Pisino, dove venivano giudicate con un rito sommario. Per giustificare qualsiasi cosa dicevano che erano fascisti, ma allora la tessera l’avevamo tutti, erano tutti iscritti al partito. Li fucilavano, ma non sapevamo cosa facessero coi corpi. Poi dicono che un ragazzino avesse trovato il cappello del padre vicino a una foiba e per quello si iniziò a cercare. Erano luoghi da cui ci tenevamo lontani, l’Istria è cosparsa di questi inghiottitoi tipici del terreno, non esistevano nemmeno i mezzi per scendere laggiù, sarebbero serviti degli speleologi. Vennero invece i pompieri di Pola a ispezionare le foibe e trovarono i cadaveri. Sopra avevano molta terra, per nasconderli, e poi perfino un cane, per disprezzo. Conosce la storia di Norma Cossetto?».
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Parliamo di donne. Dopo l’armistizio la comunità istriana rimane isolata e lei non sa nulla della sorte del marito (maestro, nato su un’isola dalmata, “due volte esule”, ufficiale degli alpini con la divisione Julia e con la Pusterla, ferito in Albania, poi inviato in Francia e Germania; un’altra vita che a raccontarla le parole rimpiccioliscono) e va a Trieste da uno dei suoi fratelli per avere notizie. «Non sapevo più nulla e c’erano delle donne che andavano e venivano da Trieste, le chiamavamo le strozzine, compravano lì il frumento, qualche paio di scarpe, le cose necessarie. Un giorno mi sono fatta coraggio, mi sono unita a loro e sono andata a piedi a Trieste in cerca di notizie, 50 chilometri, portavo le pantofole ma avevo i piedi piagati lo stesso». L’indipendenza delle donne istriane spesso fu additata come comportamento sconveniente nei Paesi in cui andarono in esilio. Frequentavano i caffè, erano disinvolte e allegre, abituate a lavorare fuori casa, emancipate; suscitavano diffidenza tra le altre donne, in Italia come in Australia. Alla fine non ripercorriamo la storia atroce di Norma Cossetto e ricordo invece il libro Verde acqua di Marisa Madieri, moglie di Claudio Magris, il titolo dal colore del primo maglione che la fece sentire finalmente integrata nella società triestina.
Mi racconta che per il plebiscito di Pella si nutrirono grandi speranze e mentre la commissione lavorava, loro in Istria cucivano di nascosto i tricolori, preparavano bandiere di fortuna tingendo lenzuola o strappando i rami dagli alberi nei boschi se mancava il verde. L’isolamento in cui vivevano era talmente grande che nessuno conosceva la situazione internazionale se non a grandi linee e di certo nessuno era cosciente della portata della sconfitta dell’Italia, della sua totale mancanza di peso in Europa, nella conferenza di pace di Parigi. E così quando il plebiscito fu bocciato «avevamo paura che i titini ci trovassero le bandiere in casa e allora le abbiamo seppellite nell’orto di un vicino e sono ancora lì».
L’orizzonte del futuro si chiudeva sull’impotenza, la perdita di punti di riferimento, lo sgretolarsi di una società intera sotto una pressione ambientale che durò anni: bisognava andare via, si doveva farlo per i figli. «Ero incinta. Il provveditorato di Trieste mise a disposizione una lista di luoghi in cui avremmo potuto insegnare. Scegliemmo il Veneto pensando che parlavamo almeno la stessa lingua e la provincia di Padova perché poi questo figlio sarebbe stato vicino all’università quando avrebbe studiato». Mi invita ad alzare lo sguardo su un quadro appeso alla parete; rappresenta la fuga in Egitto e sotto c’è una data scritta a caratteri molto grandi: 21 novembre 1946. E immagino la madonna col bambino che ho davanti arrivare dal mare in pianura padana: «Il clima, la mattina che ho visto la nebbia e non sapevo cos’era». Fosse stato solo il gelo atmosferico ad accoglierla, l’avrebbe sopportato.
«Ero inesperta, sola e disperata perché all’inizio ci trattavano come ora si fa spesso con gli extracomunitari. Le colleghe ci accusavano di portargli via il lavoro. Io ero cittadina italiana, avevo vinto un concorso e quindi diritto a una cattedra». Poi, piano piano, la stima e il rispetto guadagnati col lavoro e l’esercizio continuo della dignità: «Gli alunni mi abbracciano ancora se mi incontrano per strada, i miei ragazzi, adesso hanno settant’anni». E proprio perché gli esuli erano in molti casi persone intellettualmente preparate, oltre che abituate a resistere alle avversità, non ci fu emarginazione sociale; le ferite rimasero aperte solo nei loro cuori e l’Italia dimenticò in fretta la loro storia. Tito poi non fu nemmeno più un nemico, a partire dagli anni ’60, ma un redditizio partner commerciale. Il boom economico trasformò apparentemente gli esuli in cittadini a pieno titolo, riunì vincitori e vinti, coprì di vegetazione rigogliosa le foibe.
L’ultima domanda non può che essere questa: perché l’Italia ha dimenticato o finto di dimenticare così a lungo (il giorno del ricordo è stato istituito da poco più di una decina d’anni e un solo giorno non basta). La risposta è chiara e nessun libro di storia la può smentire: «L’Esodo istriano è stato cancellato perché Togliatti e i comunisti, amici di Tito, non volevano che si sapesse cosa stava succedendo lì e a quel tempo per loro eravamo solo i fascisti. Noi siamo stati zitti perché abbiamo ritegno a raccontare, per un senso di umiliazione, perché ci hanno fatto sentire dei mendicanti». Ci rubano il pane, titolava «L’Unità» il 30 novembre del ’46, pochissimi giorni dopo la fuga in Egitto di Mercede, in un articolo che assimilava senza sfumature gli esuli ai fascisti.
«Abbiamo ritegno a raccontare». Ritegno, parola bellissima, molto adatta anche a queste settimane in cui si è parlato e sparlato tanto di libertà di espressione. Con ritegno: il necessario senso della misura, la via dell’integrazione. Solo così quel ricordo steso sul tavolo in forma di carta geografica non delimita confini nella convivenza tra esseri umani. E non dura più soltanto un giorno.
Bibliografia:
Raoul Pupo, Il lungo esodo. Istria: le persecuzioni, le foibe, l’esilio. Rizzoli, 2005.
Gianni Oliva, Foibe. Le stragi negate degli italiani della Venezia Giulia e dell’Istria. Mondadori, 2003.
Marisa Madieri, Verde acqua. La radura e altri racconti, Einaudi, 2006.
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