“Giorni di fuoco”, la Los Angeles delle rivolte razziali raccontata da Ryan Gattis
Con la pubblicazione di Giorni di Fuoco (Guanda, 2016, trad. di Katia Bagnoli), Guanda porta in Italia per la prima volta Ryan Gattis, scrittore già noto da diversi anni al pubblico americano per precedenti romanzi e racconti, docente di scrittura creativa e impegnato attivamente sia in una compagnia no profit per la difesa e la diffusione del patrimonio letterario e culturale californiano, sia in un gruppo di artisti di strada.
Siamo a Los Angeles, la mattina del 29 aprile del 1992, mentre si conclude uno dei processi più celebri della storia americana: il tribunale di Los Angeles assolve i quattro poliziotti coinvolti nel pestaggio di Rodney King, un tassista nero che non si era fermato al loro ordine. Meno di due ore dopo il verdetto, la città di Los Angeles, una polveriera di tensioni razziali, esplode in una violenza inaudita: per sei interminabili giorni si scatena l’inferno, intere zone della città vanno a fuoco e vengono abbandonate a loro stesse dalle forze dell’ordine. Per le gang criminali è l’occasione per regolare vecchi conti in sospeso, lasciando sul campo decine di morti. Giorni di fuoco ci offre un resoconto di quelle giornate, attraverso la voce di ben diciassette personaggi diversi, ciascuno dei quali racconta al lettore la propria esperienza personale e i fatti di cui è stato protagonista, oppure semplice testimone, in una catena dal ritmo serrato e avvincente.
Abbiamo intervistato Ryan Gattis in occasione della tappa milanese del suo tour di presentazione del romanzo.
La storia recente degli Stati Uniti è contrassegnata da numerosi episodi di rivolta a sfondo razziale. Perché ha scelto di ambientare il suo romanzo proprio durante quella del 1992 a Los Angeles? Cosa la distingue dalle altre avvenute nel recente passato?
Si può dire che, in un certo senso, sia stato quel periodo a trovare me. Nel 2008 mi ero trasferito a Los Angeles, le cose non mi andavano tanto bene perché eravamo all’inizio della crisi economica e non so se sia stato proprio quel periodo di difficoltà a portare le persone a ripensare alle rivolte del 1992. Mi capitava spesso di parlare con persone che ricordavano bene tutto ciò che era successo all’epoca. In particolare, quello che mi sconvolgeva di più era la differenza tra ciò che mi veniva raccontato da chi era stato testimone e ciò che io sapevo di quei fatti per averlo appreso attraverso la televisione, che allora era l’unico mezzo d’informazione che avevamo a disposizione.
È stato un precursore terribile, perché l’incidente di King è avvenuto quando le videocamere erano appena arrivate sul mercato, e per la prima volta ci è stato mostrato quali problemi di violenza ci fossero all’interno della polizia. Adesso, noi abbiamo la possibilità di avere molte più prove documentarie, soprattutto grazie ai telefonini. Sappiamo quindi che ci sono davvero due tipi di sistema giuridico, uno per i neri e uno per tutti gli altri.
Nel 1992, lei aveva 13 anni. Quali sono i suoi ricordi personali di quella rivolta?
Ho un ricordo visivo del telegiornale del 29 aprile del 1992, e persino uno tattile, perché mi trovavo in cucina a piedi nudi e avvertivo il freddo delle piastrelle del pavimento mentre guardavo la tv. L’annunciatore, prima di mostrare il filmato, disse che se c’era qualcuno impressionabile tra gli spettatori, sarebbe stato meglio che non lo guardasse, perché conteneva immagini molto forti. Io, ovviamente, adolescente curioso, mi sono proteso ancora di più verso il televisore per vedere meglio. C’era un camionista, fermato dalla polizia a un incrocio, che veniva colpito alla testa con una tale violenza che per un po’ ho creduto di aver visto qualcuno morire in diretta, e mi sono sentito malissimo. Questo è il mio ricordo personale più intenso.
Come è nata la scelta di immedesimarsi di volta in volta in un personaggio diverso, raccontandolo in un modo così ben caratterizzato rispetto agli altri?
Questa struttura mi è venuta in qualche modo naturale. All’inizio, in realtà, volevo raccontare solo la storia di Payasa, ma poi questo mi ha portato a parlare di Ernesto, suo fratello, ed è stato un passaggio molto rischioso, che mi terrorizzava scrivere. Ho dovuto poi aggiungere il terzo fratello, per un totale di tre personaggi nello stesso giorno, e a quel punto mi sono fatto delle domande, perché, andando avanti, la vicenda si faceva sempre più complessa, con continui rimandi tra i personaggi. Però, in generale, era come se ci fosse una specie di testimone che veniva passato da uno all’altro per far progredire la storia.
Il lettore è l’unico ad avere una visione omnicomprensiva di quello che succede ma, in effetti, se all’inizio qualcuno mi avesse detto che avrei usato diciassette narratori diversi, credo che non avrei mai affrontato un’impresa del genere. Invece l’ho fatto, e ne sono contento perché per raccontare quei sei giorni del 1992 ho dovuto fare molte ricerche, trovare documentazioni e parlare con moltissime persone, che ora si ritrovano nel libro.
A distanza di più di vent’anni, però, le tensioni razziali non sono affatto diminuite, così come non è cambiato un certo atteggiamento brutale e razzista da parte delle forze di polizia statunitensi. Il passato non ha dunque insegnato nulla?
Visto che continuano ad accadere fatti del genere, sarebbe molto facile trarne la conclusione che noi non abbiamo imparato nulla, ma in realtà, secondo me, alcune lezioni sono state tratte da tutto quanto è successo. Innanzitutto, ci sono stati diversi studi e sono stati scritti dei libri su come la polizia di Los Angeles ha fallito nel 1992, e il fatto che sia stata messa sotto accusa è di per sé esemplare, perché negli Stati Uniti essa rappresenta da sempre un modello.
Forze dell’ordine di altri distretti vengono mandati proprio lì per imparare. Secondo me, quindi, alla fine abbiamo imparato qualcosa. Basti pensare a quanto è accaduto a Baltimora, dove c’è stato un errore giudiziario e un sottufficiale della polizia è stato accusato ingiustamente di aver ucciso una persona: la polizia si è ribellata alla sentenza, ma lo ha fatto in modo composto, senza scatenare rivolte. Alcune lezioni sono state apprese in questi anni, e il clima è leggermente migliorato.
L’integrazione è un problema che, in questo momento, interessa in modo particolare tutta l’Europa. Secondo lei rimane ancora possibile realizzarla, oppure dobbiamo ammettere che il mondo occidentale in questo sta fallendo, o è addirittura già fallito?
Mi ha fatto una domanda veramente dura! Devo dire che uno dei vantaggi del fatto che io guardo questo fenomeno dagli Stati Uniti è la constatazione che noi abbiamo immigrati venuti da noi da generazioni e generazioni, mentre per l’Europa questo è il primo grande problema d’immigrazione dopo la seconda guerra mondiale, e in cui sono coinvolte così tante persone che devono integrarsi in luoghi diversi.
Questo non può essere facile, soprattutto perché non può essere un processo a breve termine. Adesso però siamo abituati ad avere tutto subito, come le news ventiquattr’ore su ventiquattro, mentre la vera integrazione avviene nell’arco di più di una generazione.
Del resto, un esempio che posso fare è proprio quello dell’immigrazione italiana negli USA: nei vecchi film e in molto libri si parlava degli italiani come di un popolo terribile, che arrivava da noi per rovinare tutto, mentre oggi è davvero difficile immaginare la società americana senza il pilastro della comunità italiana, che è storia, cultura, cibo. Dal mio punto di vista, la diversità è estremamente utile e importante per promuovere l’economia, l’arte, la cultura, ma l’integrazione non è un fenomeno per cui aspettarsi risultati immediati. L’Europa deve darsi tempo per questo.
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In questo periodo, tra l’altro, l’Europa assiste con stupore, e con notevole preoccupazione, all’ascesa politica di Donald Trump. Cosa porta gli americani a parteggiare per un candidato di questo tipo?
Trump ha successo perché manipola le paure di una parte della popolazione bianca che si sente emarginata, che fa parte soprattutto di quella classe operaia che da decenni non riesce più a trovare un lavoro, che perde progressivamente occupazione a causa del declino dei settori industriali, perché non è arrivato nulla a sostituire quelle forme di impiego. Io, in effetti, sono molto intristito dall’ascesa politica di Trump in quanto lo considero la cosa più simile a un leader fascista, che noi non abbiamo mai avuto. Ma soprattutto, la cosa che più mi spaventa è che lui sia anche felice di essere considerato tale, che goda di questo, che incoraggi la violenza nei suoi comizi e che sia davvero contento di essere scambiato per un razzista, anche se non può ammettere apertamente di esserlo.
Non so cosa potrà accadere al partito repubblicano. Forse ci sarà una rivoluzione in seno al partito, ci sarà in qualche modo una svolta: non m’interessa come, ma l’importante è che lui perda, e che salga al potere qualcuno che apra alla diversità, e che non definisca stupratori tutti i messicani.
Vorrei dire anche un’altra cosa. La ragione per cui penso che questa tendenza del partito repubblicano sia destinata a morire è che la demografia in America sta cambiando radicalmente, perché la popolazione latino-americana rappresenterà la maggioranza tra quindici o vent’anni, e in alcuni stati lo è già adesso. Non posso quindi fare a meno di pensare a ciò che diceva John Fante, quando dichiarava di sentirsi disprezzato in quanto figlio di immigrato, ma sapeva anche che da adulto avrebbe potuto cambiare qualcosa nel Paese.
È un po’ la stessa cosa che dice Payasa in Giorni di fuoco, quando dichiara «dovete adeguarvi, perché noi facciamo più figli di voi e quindi siamo destinati a superarvi». Questo è il motivo per cui possiamo ancora nutrire delle speranze per gli Stati Uniti.
Lei fa parte di un gruppo di artisti di strada, e nel suo romanzo dedica un capitolo molto bello al personaggio di un writer. Qui in Italia si discute molto sulla differenza tra street art e puro imbrattamento dei muri, specie quando questo viene fatto su monumenti di grande valore storico e artistico. Lei cosa ne pensa?
Naturalmente bisogna distinguere caso per caso. Io non posso esprimermi sulla deturpazione di monumenti storici, perché quella potrebbe essere anche un’azione di tipo politico, un voler richiamare l’attenzione su determinati problemi. Per me, murales e graffiti rappresentano una forma di comunicazione. A Los Angeles ce ne sono tantissimi che mostrano “dove fa male”: sono il simbolo di una malattia sociale, il sintomo visivo di quello che non va. Se si va in giro per i quartieri ci si può chiedere perché ci siano determinate gang, soprattutto dove non c’è occupazione e regna la violenza.
Io mi arrabbio con le persone che esprimono indignazione per i graffiti che vedono sui muri prima ancora di chiedersi perché ci siano. Questo è la vera vergogna. Come parte di un gruppo di street art io mi rendo conto che ci sono molte differenze tra graffiti e graffiti, tra murales e murales, ma d’altra parte a Los Angeles abbiamo opere che ormai sono diventate famose e devono essere conservate.
Non dobbiamo chiederci solo perché un muro è sporco, ma se questo esprime un dolore: togliendo questo dolore, forse sparirebbero anche molti graffiti.
Dopo aver scritto un libro così impegnativo, la cui stesura ha richiesto due anni e mezzo di tempo, quali sono i suoi progetti di scrittura futuri?
Mi sto occupando di un progetto per Amnesty International: devo scrivere una storia che riguardi la pena di morte, e quindi sono andato in un carcere, a parlare con alcuni detenuti reclusi nel braccio della morte. E poi c’è un nuovo romanzo, di cui per ora non posso dire molto, se non che è ambientato a Los Angeles nel 2008, sempre in quei quartieri che non si vedono in televisione e che molti abitanti della città sarebbero felici di non vedere mai rappresentati, proprio perché, nel momento in cui ti rendi conto di com’è ridotta una certa parte del luogo in cui vivi, come cittadino diventi in qualche modo responsabile del suo degrado.
Per me, però, è fondamentale continuare a scrivere di questi luoghi, e in una maniera diversa da come vengono descritti di solito. Voglio mostrare che, anche se sono considerati posti da schifo, possono dare vita a delle magnifiche storie.
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