Giornata della Memoria 2015 – La sfida della memoria per non banalizzare la Shoah
Celebrazioni come la Giornata della Memoria portano con sé una sfida e un rischio. La sfida della memoria che deve concretizzarsi in un processo che vada oltre la banalizzazione insita in tutte le celebrazioni più o meno ufficiali. Il rischio che la memoria si areni sullo scoglio dell’incomprensibilità di quanto accaduto e rinunci anche a conoscere. Questo sarebbe il vero scacco dell’Umanità, se, come sosteneva Primo Levi, «l'Olocausto è una pagina del libro dell'Umanità da cui non dovremo mai togliere il segnalibro della memoria».
Ne abbiamo parlato con Massimo Giuliani, professore di Pensiero Ebraico e vice-presidente del corso di laurea in Filosofia presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’università di Trento, oltre che membro dei comitati scientifici della Fondazione Maimonide (Milano) e della Fondazione Museo Nazionale dell’Ebraismo Italiano e della Shoah (Ferrara), nonché autore, tra gli altri, di interessanti saggi sul tema della Shoah (La misura della responsabilità dopo Auschwitz in Shoah, modernità e male politico, Mimesis, 2014; Inespiabile, imperdonabile, irredimibile: sul trauma della Shoah in Levinas e oltre, in Trauma e Psyché: le ferite del Novecento nella riflessione artistica e filosofica, Lithos Editrice, 2014; Guardare il Tremendum: interpretazioni filosofiche e teologiche della Shoah, in Il Giorno della Memoria all'Università di Ferrara, Giuntina, 2014), e curatore, nel 2013, del volume Conoscere la Shoah: storia, letteratura, filosofia, teologia, arte, Editrice La Scuola.
Qual è la sfida della memoria dinanzi alla Shoah?
Da tempo vado riflettendo sul fatto che oggi la “memoria della Shoah” – ovvero il ricordo culturale e politico della persecuzione razziale anti-ebraica degli anni Trenta e Quaranta del Novecento, culminata nello sterminio di circa sei milioni di ebrei da parte del regime nazista e dei suoi collaboratori – ha dinanzi a sé anzitutto la sfida della retorica ossia una modalità rituale superficiale e reiterata solo per ragioni istituzionali, che non suscita e a cui non segue una presa di coscienza etica della “lezione storica” implicita in quella memoria. La retorica “blocca” il pensiero, che invece dovrebbe essere sfidato, appunto, dalle grandi domande: come è stato possibile, nel cuore dell’Europa cristiana e nel cuore della colta Germania, progettare e attuare un simile crimine contro il popolo ebraico? Perché i grandi paradigmi umanistici elaborati dall’illuminismo europeo non sono serviti a inibire tale progetto e ad attivare in massa le coscienze alla resistenza? Man mano che muoiono i testimoni, la testimonianza passa sulla bocca e attraverso le parole di chi quei testimoni li ha ascoltati e interpretati. Il XXI secolo sarà tutto costruito su questa memoria delle tragedie del XX, ma essa servirà solo se sarà “elaborata”; se resta mera retorica prima o poi verrà contestata e rifiutata.
Ogni sfida, però, comporta anche dei rischi, soprattutto se la memoria è lasciata sola. In quale misura è possibile supportarla per superare il trauma della Shoah, da un lato, e per esprimere un giudizio morale, dall’altro?
Un trauma personale di tale portata dura l’intera vita mentre i traumi collettivi rimangono indelebili per generazioni. È un bene che la memoria di questo trauma non sia guarita troppo in fretta. Piuttosto occorre che le cicatrici – come i numeri tatuati sui prigionieri di Auschwitz – diventino il simbolo di traumi che non dovrebbero più ripetersi, prevenendo le condizioni storiche che li generano. Ai limiti della memoria – ai rischi di questo strumento che Primo Levi chiamava “meraviglioso e fallace” – si risponde e si rimedia con la forza dello studio, lo studio della storia, la lettura e il commento delle testimonianze più affidabili, la coltivazione del senso critico. Non si educa al senso morale su una pseudo-storia o su una storia mitizzata o mitologizzata. Più storia e più studio critico della storia sono il solo correttivo a una memoria difettosa, parziale, ideologica o retorica. Ovvio che solo il felice connubio di memoria e storia costituisce la base di ogni tentativo di negare i fatti, di ridurne il senso vero, contestuale e comparato.
La giornata della memoria è anche giornata di discorsi tra il commemorativo e il celebrativo. È possibile sfuggire a quelli che Todorov individua come i due estremi di ogni discorso sulla Shoah, cioè banalizzazione e sacralizzazione? E perché è importante rifuggire da entrambi?
Questi due estremi si evitano solo con un approccio intellettualmente onesto, che sa pesare i fatti storici e le loro implicazioni etiche per l’oggi. Banalizzazione e sacralizzazione non derivano dai fatti, ma dal nostro uso o abuso, comprensione o fraintendimento dei fatti storici stessi. Certo, le interpretazioni sono necessarie e doverose ma sempre nei confini della comprensione dei fatti. Se questi sono stravolti e deformati dall’interpretazione, ecco l’abuso e il prevalere dell’ideologia. Un fenomeno tragico e complesso come la Shoah richiede molta umiltà da parte di chi lo studia e lo divulga, perché solo un approccio multidisciplinare riesce a coglierlo – se poi riesce! – senza ridurne appunto sia la complessità sia la tragicità. Prima di giudicare e per ben giudicare è essenziale conoscere e capire, nei limiti del possibile e ben sapendo che la Shoah è una sfida a questi stessi limiti.
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La riflessione storiografica spesso ha definito la Shoah come un evento unico. Emil Fackenheim, invece, preferisce la definizione di “senza precedenti” che comporta una storicizzazione sia rispetto al passato sia con riferimento al futuro: ciò che non ha precedenti, infatti, può rappresentare esso stesso un precedente. Nell’ambito di una riflessione morale, quali potrebbero essere le conseguenze di una tale riflessione?
Negli anni Ottanta e Novanta vi è stato un acceso dibattito sull’unicità della Shoah, che gli anglosassoni chiamano Olocausto. È servito, a mio parere, a chiarire che unico non vuol dire che non si può comparare. Se l’unicità serve a togliere un evento dalla storia, allora tale evento è destinato a venir “sacralizzato” (se trova i suoi profeti e i suoi sacerdoti); se unicità significa solo, come dice Fackenheim, “senza precedenti”, serve allora ad acuire i nostri strumenti di studio e di comprensione e a farne, suo malgrado, una lezione universale. Nel caso della Shoah, l’universalizzazione della lezione non deve confliggere con la specificità delle vittime, che sono in stragrande maggioranza ebrei – uomini, donne e bambini – e solo nel rispetto di questo fatto, che “eleva” la Shoah a capitolo della lunga storia di antigiudaismo/antisemitismo, essa diventa simbolo e lezione per l’umanità. Ahinoi, in Ruanda e nella ex Jugoslavia, negli anni Novanta, la lezione non è servita…
Pur non volendo considerare la Shoah un evento unico, non si può negare che proprio questa tragedia, e non altre, rappresenti l’emblema del male nel XX secolo. Quali potrebbero essere le ragioni di questa sedimentazione storiografica?
Per comprendere questo aspetto della Shoah bisogna vederne da vicino le modalità e gli elementi moderni convergenti: l’uso della propaganda, l’impiego della tecnologia, la suggestione dei simboli, la psicologia di massa sapientemente usata dall’arte della demagogia… Il male non è una categoria della storiografia e in tale sede va evitata; è invece una categoria dell’etica e della filosofia morale, e in tal senso è legittima. Ma anche qui, senza abusi. Definire la Shoah un “male radicale” può esonerare l’intelligenza e la volontà dal capirla e dal trarne lezioni di resistenza etica, politica, religiosa.
Parlavamo della Shoah come emblema del male, e, secondo alcuni, del male assoluto. Eppure Hannah Arendt, definendo il comportamento di Eichmann, il principale artefice della soluzione finale, parlò di banalità del male. In quale misura, la riflessione arendtiana, al netto delle accuse che le sono state mosse, può rappresentare un monito per il futuro?
Il merito del dibattito suscitato dagli scritti della Arendt è quello di aver riportato la riflessione sul piano etico-politico e di aver contribuito alle “demitizzazione” della Shoah o almeno aver messo sull’avviso dei rischi di tale demonizzazione. Tutta l’opera arendtiana mira, se ben letta, a incrementare il senso critico cui ho fatto cenno e il senso di responsabilità connesso a ogni seria valutazione morale dei fatti storici. Non è un esercizio facile e per questo Arendt è stata spesso fraintesa e accusata, essa stessa e per paradosso, di banalizzazione. Ma l’onesta e la lucidità delle sue analisi non possono essere messe in discussione, solo perché si preferisce mettere enfasi su altri, pur legittimi aspetti, di questa tragedia ebraica europea.
Adorno: «Dopo Auschwitz, nessuna poesia, nessuna forma d’arte, nessuna affermazione creatrice è più possibile». Teologia e teodicea sono ancora possibili? Oppure, con Richard Rubenstein, dobbiamo rifiutare Dio e siamo costretti a riconoscere l’insensatezza del mondo?
Ad Adorno hanno riposto con autorevolezza sia Primo Levi sia Paul Celan, che hanno “scritto poesie” non solo dopo Auschwitz ma su Auschwitz. Non si è trattato di smentire Adorno ma di reagire alla sua provocazione cogliendone in profondità il senso: la magnitudine di quel che è successo in Europa durante la seconda guerra mondiale è tale da costituire una rottura di civiltà, un trauma non facilmente sanabile, una frattura per la filosofia e per la letteratura. Lo stesso concetto è espresso in linguaggio teologico e psico-analitico dal mio vecchio amico Rubenstein, un rabbino oggi molto anziano ma molto lucido, il quale da tempo va ripetendo che l’ideologia jihadista islamica è l’equivalente, all’inizio del XXI secolo, dell’ideologia nazista degli anni Trenta e Quaranta. I fatti di Parigi di questo mese di gennaio sembrano dargli ragione. Vuol dire che dobbiamo fare più poesia e più teologia, non meno!
«Ci viene proibito di concedere a Hitler vittorie postume», così Emil Fackenheim. Quali sono le reazioni alla Shoah per vincere definitivamente Hitler, sempre che una vittoria definitiva sia possibile?
La domanda vede bene: sempre che sia possibile vincere una volta per sempre. Purtroppo non è possibile. Occorre che la resistenza sia continua e su più fronti. Non sta a me dire di strategie militari o di alchimie economiche – elemento che stanno tra le concause della Shoah – ma posso dire che chi fa educazione delle coscienze ai valori etici sta in prima fila nella lotta contro “una vittoria postuma di Hitler”. Razzismo e populismo sono fattori che, quando si combinano, producono mostri sociali. Il fanatismo religioso ne produce e ne sta producendo altri. Ancora una volta: più studio e meno indottrinamento, più senso critico e meno retorica, più responsabilità e meno idolatria della terra e del sangue.
Mi permetta di chiudere con una domanda a bruciapelo: cosa ci dice la Shoah a proposito di ogni essere umano?
Che quando si crede di avere la verità in tasca e Dio dalla nostra parte, spesso ci si dimentica che ogni uomo e ogni donna sono portatori di una scintilla divina e chi li viola, in qualsiasi modo, nega anche la verità di se stesso.
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