Giornalismo culturale – Intervista ad Alessandro Gnocchi
Giunge alla sesta tappa il nostro viaggio nel mondo del giornalismo culturale, e dopo Francesco Musolino, Luigi Mascheroni, Giorgio Biferali, Luca Ricci e Annarita Briganti abbiamo posto qualche domanda ad Alessandro Gnocchi.
Giornalista culturale presso «Il Giornale», con Alessandro Gnocchi abbiamo provato a evidenziare i pregi e i difetti del giornalismo culturale italiano, sottolineando le ragioni della perdita di fiducia da parte dei lettori.
Cominciamo da una domanda a bruciapelo: cos’è oggi il giornalismo culturale e com’è cambiato negli ultimi anni?
Rispondo con… una domanda a bruciapelo: cos’è il giornalismo (senza aggettivi) oggi? Partiamo dal vecchio mondo della carta stampata, doppiamente in crisi. La Rete infatti non solo “brucia” le notizie ma anche i commenti. Cosa resta? Forse un ritorno al passato: grandi reportage, grandi inchieste, grandi firme. Ma quanti lettori potrebbe avere un giornale con queste caratteristiche? Poche, temo. Veniamo al nuovo mondo della Rete. Per ora nessuno ha trovato la quadratura tra costi e qualità. Si naviga, è il caso di dirlo, a vista. Il futuro è qui. Difficile dire quali contenuti prevarranno e su quali canali.
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Ormai è diventato quasi un mantra: il giornalismo culturale è in crisi. Quanto c’è di vero in quest’affermazione, secondo lei? E quali sono le ragioni di un’eventuale crisi o del continuo riproporsi di tale argomentazione?
Che sia in crisi è un dato di fatto. I lettori non si fidano. Uno dei motivi, non so se sia il principale, è la fretta. La corsa alle anticipazioni ha fatto una vittima: la profondità. I pochi lettori che si addentrano nelle sezioni culturali sono competenti e motivati. Se ti beccano in castagna mentre parli di cose che non conosci o esalti i libri degli amici, non ti perdonano. E hanno ragione. Dopo la fretta, viene l’autoreferenzialità: si scrive sempre delle stesse quaranta persone che si incontrano ai festival e si vedono in tv. Dopo la fretta e l’autoreferenzialità, viene il conformismo: si scrive sempre delle stesse persone e nello stesso modo.
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Per molto tempo si è affermato che il futuro del giornalismo culturale sarebbe stato sul web. Allo stato attuale, come giudica il panorama dei portali culturali italiani? Sarà possibile una loro più forte affermazione nel tempo?
Difficile dire. Credo di sì. Senz’altro i blog letterari un tempo molto frequentati sono in coma. Sono stati importanti ma hanno acquisito gli stessi difetti dei giornali. Ora si vede qualcosa di nuovo, con una maggiore fiducia nel video rispetto al passato. È ancora un settore pionieristico, però.
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Secondo alcuni, il giornalismo culturale è responsabile di aver creato una distanza tra chi scrive di libri, arte, musica, cinema e il mondo dei lettori dei giornali a cui poi sono dirette le iniziative culturali di cui i giornalisti parlano. Sussiste anche secondo lei una tale responsabilità? Ed esistono davvero delle “colpe” del giornalismo culturale rispetto alla disaffezione del grande pubblico alla cultura?
Il compito del giornalista è informare. Più ampio è il raggio delle informazioni, più ricco dovrebbe risultare il dibattito. Il dibattito interessa e coinvolge. Se non c’è dibattito perché tutti la pensano allo stesso modo… Quindi i giornalisti dovrebbero essere capaci di fornire un’informazione completa e non scontata.
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Spostiamo un po’ l’attenzione sul giornalismo che si occupa di editoria, quale dovrebbe essere la sua funzione?
Se parliamo in generale del mondo dei libri, industria e prodotti, la funzione resta quella di fornire l’informazione più ampia possibile. Esiste infatti un mondo tutto da esplorare. Prendiamo, ad esempio, i cosiddetti piccoli editori: spesso (non sempre) sono piccoli solo nel fatturato. Al loro lavoro dobbiamo la reperibilità di testi altrimenti dimenticati, filoni culturalmente anti-conformisti, giovani talenti.
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In Italia si legge poco, nonostante i dati rivelino una leggera crescita negli ultimi tempi. Data per scontata la necessità di interventi che dovrebbero essere messi sinergicamente in campo da politica e filiera produttiva del sistema editoriale, c’è qualche margine di intervento per il giornalismo culturale?
Il margine è la capacità di creare interesse. Contrapporre idee, scoprire nuovi personaggi, cercare di non essere banali nelle scelte e noiosi nella scrittura. Se riuscissimo a fare queste tre o quattro cose, chiunque ne trarrebbe giovamento, noi giornalisti per primi.
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