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Giornalismo culturale – Intervista a Luca Ricci

Giornalismo culturale – Intervista a Luca RicciProsegue il nostro viaggio all’interno del giornalismo culturale, nel tentativo di comprenderne, grazie all’intervento di autorevoli operatori del settore, gli spazi di manovra, i punti di forza e i limiti, oltre alle possibilità di cambiamenti futuri e ai rischi presenti.

Così, dopo l’intervista a Luigi Mascheroni, caposervizio cultura e spettacolo de «Il Giornale» docente di Teoria e tecniche dell'informazione culturale all'Università cattolica del Sacro Cuore, abbiamo posto qualche domanda allo scrittore e giornalista Luca Ricci.

Autore di libri come L’amore e altre forme d’odio (Einaudi 2006, Premio Chiara), Come scrivere un best seller in 57 giorni (Laterza 2009) e Mabel dice sì (Einaudi 2012), oltre che di singoli racconti in digitale (il più recente è Lo strano caso della libreria antiquaria, I Corsivi del Corriere della Sera, 2015), Luca Ricci collabora con «La Lettura» del «Corriere della Sera» e con le pagine culturali del «Messaggero», per il quale cura la rubrica culturale Ricci & Capricci.

 

Qual è oggi la funzione del giornalismo culturale? E in che misura si confronta con la promozione della cultura?

Ormai qualche anno fa, nel mio primo Ricci & Capricci – la rubrica digitale che curo per «Il Messaggero –, scrissi chiaro e tondo che il Bancarella aveva sbagliato a premiare il libro di Anna Premoli: era assurdo che avesse vinto la paraletteratura. Ecco, il giornalismo culturale non dovrebbe essere ridotto a una mera funzione promozionale, anzi dovrebbe proprio rifuggire l’idea della promozione fine a sé stessa, del pezzo vetrina. La sua efficacia – anche promozionale, paradossalmente – si misura sul potere che ha di aprire uno spazio di discussione, di farsi catalizzatore d’attenzione e moltiplicatore d’interventi.

 

Una delle critiche che maggiormente si muove al giornalismo culturale riguarda la rottura del legame con i lettori, la difficoltà a creare un dialogo con loro. Esiste realmente questo problema? E quali azioni si potrebbero attuare per riportare al centro questa relazione?

La promozione” ha vinto sul “discorso”, rendendo le terze pagine culturali brochure o depliant degli uffici stampa delle case editrici. Si fanno molti, troppi favori. Questo è molto deprimente, perché mette in evidenza soprattutto una cosa: il sistema di stampo familistico che regge la maggior parte del sistema culturale italiano. Se x, y e z pubblicano per lo stesso editore e sono amiconi quale credibilità possono avere i complimenti che si fanno reciprocamente? Inoltre non c’è più tempo né spazio per un’analisi, contano solo le lodi (la quasi totalità) o le stroncature (pochissime, per lo più di autori stranieri morti e con eredi poco permalosi). Se si vuole le terze pagine dei giornali si sono internettizzate, e all’ex critico si chiede di rilasciare stringati feed-back (allo stesso modo, semplici lettori stanno colonizzando le quarte di copertine dei libri con i loro giudizi prelevati dalla rete).

 

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Negli ultimi tempi, si evidenzia con sempre più forza il ruolo del web nella promozione e diffusione della cultura. Come valuta l’attuale offerta su internet? C’è la possibilità dell’affermazione di un giornalismo culturale che possa competere con quello della carta stampata?

Io credo che il rapporto tra carta stampata e web si sia già completamente rovesciato. Nel senso che fino a poco tempo fa si pensava ancora che la carta stampata, in quanto tale, fosse il vero approdo solido dei discorsi scritti, mentre invece il web rappresentasse l’impalpabile e l’estemporaneo. Adesso mi pare evidente che non sia più così: a mezzogiorno le notizie del giornale cartaceo non esistono più, al contrario i pezzi in rete diventano immortali, sono sempre raggiungibili e fruibili. In più, cosa assolutamente non secondaria, le vecchie copie del giornale restano parola morta dentro i salotti e i bagni; al contrario le parole del web riescono a fare rete, rimbalzano da un sito all’altro, vengono discusse sui social, se ne può fare un uso davvero collettivo (benché, spesso, troppo umorale e di pancia).

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Sono molti gli inserti culturali dei quotidiani italiani, pensiamo a «La lettura», «Domenica del Sole 24 Ore» o «TuttoLibri», o le sezioni web dei portali dei quotidiani, come «Spettacoli e Cultura» del «Messaggero». Quanto può incidere, secondo lei, tutto questo nella riappropriazione da parte del giornalismo culturale di quegli spazi che gli sono propri?

Io posso parlare per Ricci & Capricci che è nato grazie alla follia di Davide Desario, il quale tre anni fa mi ha semplicemente dato carta bianca dicendomi: «Andiamo avanti qualche settimana e vediamo come va». Grazie a questo spazio autarchico ho potuto perseguire un’idea forte e molto personale di “giornalismo culturale”: non mi sono mai dovuto occupare di un libro di cui non mi sarei voluto occupare. In più, non faccio quasi mai la recensione classica, ma metto insieme quattro o cinque libri e tento di fare un discorso più ampio di un elogio o di una stroncatura. E poi di settimana in settimana posso scegliere il modo di trattare l’attualità culturale: i pezzi su Masterpiece o sulla Ferrante erano di satira, ma posso fare uscire anche racconti puri, auto-fiction, interviste, o mettere insieme più scrittori e farli ragionare insieme attorno a un “tema” forte. Questo taglio così poco convenzionale – non giornalistico in senso stretto ma più da scrittore – può essere ancora attrattivo e competitivo rispetto ai ritmi e agli stimoli della rete.

 

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Secondo alcuni, il futuro del giornalismo culturale è nella televisione con programmi appositamente pensati come veri e propri contenitori per la promozione di arte, letteratura, musica, cinema, ecc. Lei ritiene che i ritmi del mondo televisivo siano compatibili con quelli del giornalismo culturale?

Rispetto alla libertà di cui ho appena parlato mi pare che la televisione sia ancora molto indietro. È vero che i pochi scrittori che passano in tv muovono copie, però appunto mi pare che il discorso sia di retroguardia, imbalsamato. Innanzitutto gli spazi sono esigui, e poi in tv vanno solo gli scrittori di successo per avere più successo (la televisione non rischia mai niente di suo, è notorio), è tutto molto scontato e noioso. La trasformazione dell’autore in personaggio, il libro come mezzo e non più come fine, e poi i famigerati tempi televisivi che da sempre sono il contrario della cultura. Chi non ha i tempi televisivi? Risposta: chi prova davvero a spiegarsi, chi tenta davvero un ragionamento. Detto questo, gli scrittori aspettano tutti comprensibilmente una chiamata da quelli della televisione. Considerato lo stallo (medio) delle vendite, è un po’ come vincere alla lotteria di Capodanno.

Giornalismo culturale – Intervista a Luca Ricci

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Spostando l’attenzione sul mondo editoriale, è pensiero comune che a incidere concretamente sulle vendite siano solo Che tempo che fa, il Premio Strega e il Premio Campiello, mentre il giornalismo riveli una forte crisi. Non è un po’ riduttivo e ingeneroso usare solo questo parametro per valutare la forza del giornalismo di settore?

Il problema secondo me investe ormai tutta la filiera del vecchio giornalismo legato alla carta stampata. All’indomani della Brexit le prime pagine dei quotidiani uscivano con titoli come Voto in bilico.Tutto il mondo sapeva già com’era andata, e quei titoli suonavano grotteschi, a maggior ragione perché provenienti da giornali che si definiscono “organi d’informazione”. Attualmente i maggiori quotidiani nazionali hanno tre versioni: una cartacea a pagamento (dei cui limiti abbiamo accennato); una digitale a pagamento che replica fedelmente la copia cartacea; un’ultima versione digitale gratuita aggiornata ogni ora e con nuovi contributi di approfondimento a seconda delle notizie di giornata. È del tutto ovvio che la terza versione sia il giornale del futuro, e che sia quella che vada messa a pagamento, in modo da ripristinare un mercato concorrenziale sano, dove oltre ai ricavi dei banner pubblicitari ci sia anche un riscontro di pubblico, di lettori. E solo allora ci sarà bisogno di grande autorevolezza tra chi scrive, anche ovviamente per quanto riguarda il settore culturale. Non ho dubbi su questo, in futuro i giornali avranno ancora più bisogno delle “grandi firme”.

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