Giornalismo culturale – Intervista a Giorgio Biferali
Prosegue la nostra incursione nel mondo del giornalismo culturale, e dopo Luigi Mascheroni, Luca Ricci e Annarita Briganti abbiamo raccolto il punto di vista di Giorgio Biferali.
Giornalista culturale presso «Il Messaggero» e «L’indice dei libri del mese»e scrittore, autore tra l’altro di Giorgio Manganelli. Amore, controfigura del nulla (Artemide, 2014) e, insieme a Paolo Di Paolo, del recente A Roma con Nanni Moretti, da poco edito da Bompiani, con Giorgio Biferali abbiamo parlato delle nuove tendenze del giornalismo culturale, della crisi della carta stampata, del web e delle sue potenzialità nonché delle opportunità offerte dai social network.
Si parla con sempre maggiore insistenza della crisi del giornalismo culturale, considerato ormai quasi ininfluente. Quali sono i confini di questa crisi e quali opportunità, invece, riserva in vista di una trasformazione del settore?
Secondo me, le domande che bisognerebbe farsi sono altre, tipo: Che cos’è il giornalismo culturale? Che cosa si intende? Cosa fa un giornalista culturale? Scrive di letteratura, cinema, teatro, arte, sui giornali? Per uno che scrive romanzi o racconti, e ogni tanto scrive delle recensioni sui giornali, sentirsi chiamare “giornalista” è quasi un’offesa, anche perché si ha l’impressione che la vera differenza tra un giornalista e uno scrittore sia nel fatto che al primo basta e avanza riportare i fatti, quasi come se si accontentasse della realtà così come gli viene mostrata, mentre il secondo, il più delle volte, la realtà è capace d’inventarsela, di offrirle un colore nuovo, diverso, inaspettato. E se parliamo di giornalismo culturale per addolcire una pratica, diciamo, “novecentesca”, come quella della critica letteraria (nel caso specifico dei libri), per dare a quello che prima era a tutti gli effetti un mestiere, quello del critico appunto, una veste più fresca, più leggera, più “pop”, e quindi liberarlo da una presunta élite culturale, ben venga.
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Carta stampata, web e televisione sono i tre canali principali su cui viaggia l’informazione. Su quale di questi vede maggiori possibilità future per il giornalismo culturale?
Mi sono accorto che quelli della mia generazione non leggono i giornali in cartaceo, non li sfiora neanche per caso il pensiero di uscire di casa per andare in edicola a chiedere un quotidiano o un settimanale. Può capitare, però, che comprino «Left» o l’«Internazionale», magari per la rubrica di Fagioli o per l’oroscopo di Brezsny, e ogni tanto, soprattutto la domenica, “scartino” qualche giornale per trovare l’inserto culturale. Il futuro dell’informazione è sul web, su questo non c’è dubbio, e non è tanto una questione di costi, ma è più qualcosa che a che fare con il tempo, con la rapidità, e anche su questo Calvino ci aveva visto lungo. Basterebbe vedere quello che è successo con il terremoto, che mentre alle 4 di notte, su Twitter e su altre piattaforme, già ne parlavano tutti, sui quotidiani che sarebbero usciti in edicola qualche ora dopo non c’era neanche una piccola traccia di quello che era avvenuto.
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Restando un attimo sul web, proviamo a fare una fotografia del giornalismo culturale su questo canale? Che impressioni ne ricava?
Sicuramente un’impressione migliore rispetto al cartaceo. Sul web, ovviamente, c’è più spazio, e quindi capita di leggere articoli che sembrano dei veri e propri saggi (penso a siti come «Le parole e le cose», «Doppiozero», «Minima et moralia»), che sui giornali di oggi non uscirebbero mai. Ti chiamerebbero per dirti “guarda, dovremmo tagliare almeno la metà del pezzo, così non va bene”. Oggi siamo tutti dei Carver alle prese con dei “grandi capi” che si credono Gordon Lish.
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Per quanto riguarda la carta stampata, invece, gli inserti culturali sono sempre più diffusi. A suo avviso, quanto possono essere concretamente incisivi nella diffusione e promozione della cultura?
Be’, sì, come accennavo, spesso sono proprio gli inserti culturali che fanno vendere più copie di un quotidiano. «Il Venerdì» di «Repubblica», che secondo me rimane il migliore, la Domenica del «Sole 24 ore» e «La Lettura» del «Corriere della Sera». C’è una tendenza comune ad avvicinarsi al lettore, sia attraverso il linguaggio, più semplice e immediato, sia attraverso la grafica, i colori, le immagini, e così la lettura torna a essere un passatempo leggero per tutti e non un privilegio pesante per pochi. In questo panorama, poi, c’è anche «Alias», nel weekend, che ha un’impronta più accademica rispetto agli altri, dove esiste e resiste la cosiddetta critica letteraria, checché ne dica Harold Bloom.
Spostando l’attenzione sul giornalismo editoriale, la sensazione generale è che esista uno scollamento tra i giornalisti che si occupano di libri e il pubblico di lettori. Quali strategie potrebbero essere adottate per riacquistare la fiducia dei lettori?
È già difficile che un lettore si avvicini a un libro che non conosce, figuriamoci se poi legge qualcuno che parla di quel libro che non conosce. Le recensioni, purtroppo, non hanno lo stesso seguito dei trailer cinematografici. Allora, casomai ci fosse il rischio che un lettore qualunque capiti sulle pagine culturali di un quotidiano e legga un articolo che parla di un libro appena uscito, dovremmo ricordarci tutti che quando parliamo di libri lo facciamo qui, nel mondo, mentre siamo vivi in mezzo agli altri. Allora non ha senso fare troppi riferimenti colti, esagerare con le citazioni, esibire i propri studi come a dire “io, comunque, sono migliore di te”. In una recensione, in cui noi stiamo rivelando la nostra lettura che fino a quel momento era intima, privata, dobbiamo raccontare quello che il libro ci ha trasmesso, perché quel momento, per noi, è più importante di altri, come da lì si possa ricavare il senso profondo del libro, se c’è un personaggio dietro cui si nasconde l’autore e insieme tutte le paure e le angosce dei nostri tempi, cose così. Insomma, bisognerebbe pensare alla lettura come qualcosa che somiglia alla vita.
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Capita spesso di imbattersi in vere e proprie apologie dei social network, e alcuni si spingono fino ad affermare che un tweet possa ottenere più risultati di una recensione. Senza voler prendere le misure sulla maggiore o minore efficacia, in che modo i social network possono essere di supporto al giornalismo culturale?
I social network rappresentano un elemento fondamentale, quello definitivo, forse, per sdoganare la lettura, i libri e la cultura in generale, dai luoghi cosiddetti elitari, che non tutti hanno avuto la fortuna di frequentare, come per esempio le accademie. Può capitare che un lettore condivida su Facebook o su Twitter una foto del libro che sta leggendo, accompagnandola con una citazione, e magari da quella nascono nuovi lettori, come fosse una nuova forma di passaparola. Magari quel post o quel tweet generano un po’ di attesa e fanno sì che i caporedattori dei giornali se ne accorgano e dedichino un po’ di spazio a un libro che fino a quel momento avevano ignorato. L’importante è che i social network rimangano tali e che in futuro non vengano confusi, come scriveva qualcuno, con una nuova forma di letteratura.
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