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Giorgio Caproni: a 25 anni dalla morte, ricordo di un poeta attualissimo

Giorgio CaproniA 25 anni dalla morte, Giorgio Caproni è più vivo e attuale che mai. In quest'epoca disorientata e contraddittoria, apriamo un qualunque manuale scolastico o lanciamo uno sguardo a un qualsiasi social network, ed ecco comparire il nome dello scrittore livornese che fu poeta, ma anche autore di racconti e saggi critici, oltre che insegnante elementare (al riguardo, suggerisco la lettura di Giorgio Caproni maestro di Marcella Bacigalupi e Piero Fossati edito da Il Nuovo Melangolo nel 2010). Adottando un diverso punto di osservazione, l'interesse del mondo accademico e delle più varie categorie di lettori non manca. Ci si augura che, usciti dal Novecento delle ideologie e delle griglie interpretative pressoché tassonomiche, si possa (ri-)leggere Giorgio Caproni illuminati dell'intelligenza di una maggiore (anche se ancora troppo breve) distanza. In ogni caso, sarei tentata di scrivere che, su tutti i fronti, per il poeta livornese si è arrivati quasi a vertici di culto.

Una fortuna accidentata ma in continua crescita, dunque, quella di Caproni, che pubblicò la sua prima raccolta, Come un'allegoria, nel 1936, ma dovette attendere un articolo di Pasolini del 1952 (oggi raccolto in Passione e ideologia) perché gli occhi si volgessero finalmente su di lui, spesso definito «marginale» e «provinciale», mentre era solo «eccentrico», ossia estraneo ai mainstream dittatoriali della critica novecentesca e alle sue linee dantesca e petrarchesca, ai suoi magisteri pascoliano o dannunziano, all'idolatria di personalità come quella di Montale (e si potrebbe andare oltre).

Giorgio Caproni aveva scelto una via originale, dando vita a un'opera personalissima, con aspirazioni da "canzoniere", e in questo senso narrativa, con fisiologici ritorni ciclici o spiraliformi tra una raccolta e l'altra, ognuna conclusa eppure in dialogo con le precedenti e le successive. A chi legga Caproni, infatti, non può sfuggire quanto ogni suo volume possieda una propria identità, ma anche quanto esso sia parte di un percorso. Esistono monadi psichiche, prima che metafisiche ed estetiche, che si riconiugano e ricombinano; ora costituiscono il sostrato, ora si accampano in primo piano. Per questo chi ami il nostro poeta si trova a suo agio tanto nel Seme del piangere del 1959 quanto nella raccolta postuma Res amissa (1991).

Vorrei allora ricordare Caproni cercando di chiarire prima di tutto a me stessa quali sono i motivi del crescente interesse nei suoi confronti e del fascino che sempre più pare esercitare presso un pubblico tanto ampio e stratificato. Procederò, di necessità, per cardini; meglio, per alcuni di quelli che a me sembrano essere tali.

Caproni è un poeta «delicato e forte», come è inciso sulla targa che, a Livorno, ricorda il luogo in cui nacque. È un poeta sensuale, attratto dalla realtà che, sotto la sua penna, si rifrange in modo caleidoscopico precipitando nell'irrealtà o trasformandosi in mito, pur trattenendo tutta la fragranza percettiva del vissuto. La poesia di Caproni racconta la straziante brama dell'incontro e dell'abbraccio impossibile con la vita, inafferrabile da un punto di vista esistenziale ed estetico. Appena le parole tentano di ghermirla, ritraendola, la realtà esplode frantumata in fitte percezioni sensoriali e in dense trame foniche e retoriche con cui il poeta cerca non di trattenerla, bensì di restituirla come è possibile a un animo sensibile e a un consapevole artigiano di parole e versi.

Può trattarsi, ad esempio, dei cari paesaggi liguri o di sfuggenti ma incisive presenze femminili, come in questo testo tratto da Cronistoria:

Rivedo il tuo paese

di sassi rossi - le sere

così acute negli occhi,

tra i pini e le specchiere

celesti.

 

         Rivedo

i tuoi netti confini

d'iridata fanciulla

- il fuoco sulla bocca

d'una chiusa rincorsa.

 

Rivedo la tua rocca

distrutta - i tuoi primi

passi, dove la strada

dissentita trabocca.

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Giorgio CaproniSono «tenui figure aride e vive», antitesi mai sanabile perché «né ora più / v'è soccorso a quel tempo ormai diviso» (dal Passaggio d'Enea). Così il nulla si fa strada nella coscienza del poeta che vuole ghermire la vita, e il «nome» sospirato fugge. Sempre e comunque.

La preda

mansueta e atroce

(vivida!) che nelle ore

del profitto (nelle ore

della perdita) appare

(s'inselva) nella nostra voce.

 

Così Caproni nel Conte di Kevenhüller. Rideclinazione, con apoteosi dell'antitesi e dell'ossimoro. Accade se non vi sono che il nulla e il non senso («Mi piacciono i colpi a vuoto. / I soli che infallibilmente / centrino ciò ch'enfaticamente / viene chiamato l'Ignoto.»). È «la frana della ragione».

E quanto alla scrittura in versi che così spesso è solita respingere quest'epoca sguaiata e facilona? Caproni può sembrare un poeta facile, ma la sua semplicità è solo apparente. È il frutto di un alto e raffinato artigianato d'autore che coinvolge le forme metriche, non scavalcate ma scavate, dissodate e disossate, rielaborate a nuova vita previa loro analisi scientifica. Il miracolo di Caproni sta nell'aver lavorato di cesello (fino all'intellettualismo) e nell'averci regalato forme di una raffinata leggerezza e di rara ariosità che si trasformeranno nella rastremazione lucida, nell'ambita geometria delle ultime raccolte.

Giorgio Caproni è uomo e poeta in perenne viaggio ed esilio. I suoi versi chiari, scintillanti o adamatini raccontano l'ebbro amore per l'«acre» vita e il suo aspro, inafferrabile fascino, e la ricerca vana di un senso. Può venire in soccorso solo l'ironia: «Morto di professione, / ha un hobby: vivere. / Questo, anche se fa un po' ridere, salva la situazione» (Res amissa).

Perché si ama Caproni, dunque? Ecco la mia parziale risposta: il poeta livornese ha saputo coniugare un coltissimo lavoro sui versi a una dimensione esistenziale e psicologica universale che è in particolare consonanza con certa sensibilità contemporanea. Quella che ci fa sentire perenni e precari viandanti, esseri ardenti di vita immersi in un non senso che la poesia permette di sublimare.

«Tonica, terza, quinta, / settima diminuita. / Resta dunque irrisolto / l'accordo della mia vita?» Lo scriveva Giorgio Caproni nella sua raccolta del 1975, Il muro della terra.

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