Giacomo Leopardi: uno sguardo innamorato sul mondo
[Articolo pubblicato nella Webzine Sul Romanzo n. 6/2013, Racconto della crisi]
«Statura piccola, capelli neri, sopracciglie nere, occhi cerulei, naso ordinario, bocca regolare, mento simile, carnagione pallida, professione Possidente». Con questa descrizione di sé, scritta il 31 luglio 1819, un Giacomo Leopardi poco più che maggiorenne si prepara a fuggire da Recanati.
L’intenzione è quella di fuggire da quel “natio borgo selvaggio” dove nessuno lo stima e dove, a maggior ragione, deve sottostare alle imposizioni di un padre padrone e di una madre bigotta ed eccessivamente protettiva. L’intenzione cerca l’occasione, e questa non tarda a venire. In una rapida corrispondenza con un amico di famiglia, il conte Saverio Broglio d’Ajano, Leopardi riesce a convincerlo di aver l’appoggio della famiglia per andarsene da casa, così che il conte gli procura il passaporto, allora necessario per andare dallo Stato Pontificio al Lombardo Veneto o a Milano, dove Leopardi voleva recarsi. Il sogno, tuttavia, si infrange contro lo scoglio di una coincidenza: Monaldo, suo padre, scopre per caso il progetto del figlio maggiore, blocca il passaporto che l’amico gli aveva ormai procurato, e manda all’aria ogni progetto di fuga tenendo abilmente il figlio all’oscuro di tutto.
Il fallimento di quel progetto di fuga (per il quale Leopardi, nel suo “doloroso disegno” aveva pure già pronti degli strumenti di scasso per saccheggiare la cassettina in cui i genitori tenevano i risparmi di famiglia, come confessa in una lettera al fratello Carlo) fa sprofondare il giovane poeta in una cupa disperazione. È forse proprio il timore di non poter mai più fuggire da quel paesotto dove i più lo conoscevano come il gobbo de Leopardi che in quel periodo lo porta pure a meditare il suicidio. Ma come tutti sanno Giacomo Leopardi non morì quell’anno, soprattutto non morì suicida. Riuscì piuttosto a trovare una chiave che lo portò a risolvere la sua complessa crisi e lo rese uno dei pensatori più originali dell’Ottocento europeo e della storia del Pensiero italiano.
La ricerca di un radicale cambiamento della sua vita si era fatta strada, in quei mesi, accompagnata da tanti timori, dubbi e angosce. Soprattutto, Leopardi non si fidava della sua costituzione fisica, molto gracile; già in passato gli aveva dato problemi. Anzi, proprio nel marzo di quel 1819 fu colpito da una misteriosa infezione agli occhi che gli impedì a lungo di leggere e di studiare. «Domandi notizia dei miei studi – scrive all’amico Giordani il 4 giugno 1819 –, ma sono due mesi ch’io non istudio, né leggo più niente, per malattia d’occhi, e la mia vita si consuma sedendo colle braccia in croce, o passeggiando per le stanze». Qualche settimana dopo la condizione addirittura peggiora, e nella lettera del 26 luglio allo stesso Giordani racconta che «io vo’ scemando ogni giorno di vigore, e le facoltà corporali mi abbandonano a una a una». Appare chiaro come quest’evento abbia contribuito ad aumentare le insicurezze e le angosce di un giovane fino ad allora ra vissuto sempre tra le mura domestiche. Già il raggiungimento della maggiore età, poi, aveva fatto sorgere in lui cattivi pensieri attorno alla chiusura di uno degli stadi più sereni della sua vita. La prima giovinezza, con la sua spensieratezza, la sua ingenuità e un’inconsapevole felicità, non sarebbe più ritornata se non nei ricordi; e rimane, questo, quasi una cicatrice dell’anima, un segno che ne determinerà pure il marchio poetico. Tale era, invece, la disperazione di quel periodo da renderlo disposto a tutto: «voglio piuttosto essere infelice che piccolo – scrive nella lettera rivolta al padre poco prima della fallita fuga –, e soffrire piuttosto che annoiarmi».
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Molto probabilmente è di questo periodo la lirica Spavento notturno, nella quale le speranze di una partenza-rinascita andate in frantumi, vengono espresse dal poeta con l’immagine della luna che precipita dal cielo «... infin che venne / A dar di colpo in mezzo al prato… Anzi a quel modo / La luna, come ho detto, in mezzo al prato / Si spegneva, annerando, a poco a poco; / E ne fumavan l’erbe intorno intorno». Muore la luna, già protagonista di molte sue liriche, e muore tutto ciò che rappresenta; un concetto che basta per capire la cifra del momento. Tuttavia proprio questa lirica già svela, almeno in parte, la chiave individuata da Leopardi per uscire dalla crisi: «Allor mirando in ciel, vidi rimaso / Come un barlume, o un’orma, anzi una nicchia”, quasi a dire che, comunque, qualcosa rimane, che non vi è una scomparsa totale. Ed è probabilmente in questo barlume, in questa nicchia, che il poeta riesce ad aggrapparsi, in una pur piccola speranza. Confortata dal fatto che “questa luna in ciel... da nessuno / cader fu vista mai se non in sogno». Ciò che sparisce rimane, per Leopardi; non se ne va del tutto. Quasi che il poeta volesse tenere il segno, l’orma, il ricordo che salva la parte buona di ogni cosa. Altro concetto che diviene tra i principali dell’autore recanatese. È anche così, pensando, un po’ narcisisticamente, a salvare anche la parte buona di sé, che Leopardi supera la crisi.
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