Gerda Taro e l’inganno della leggerezza. “La ragazza con la Leica” di Helena Janeczek
«Eppure non poteva farci nulla: Gerda era e restava leggera, in tutti i sensi, anche in quelli traslati meno lusinghieri. L'inganno della leggerezza nasceva dall'incanto che emanava, dal paradosso di una grazia inflessibile, dall'apparenza che fosse un dono, a volte un limite, e non l'esito di uno sforzo di volontà o di un costante lavoro interiore... Gerda faceva sul serio anche quando non pareva. Forse cadeva nel suo tranello lei medesima.»
È racchiusa qui, in questa breve descrizione, tutta l'essenza del personaggio, della figura storica di Gerda Taro che Helena Janeczek ha voluto raccontare nel romanzo La ragazza con la Leica, edito da Guanda e nella rosa dei dodici libri semifinalisti del Premio Strega 2018.
La storia della fotoreporter morta nel 1937 a soli ventisette anni documentando, raccontando attraverso le immagini la guerra civile spagnola. Il suo nome si fonde sul piano sentimentale e professionale con quello di un altro grande del reportage giornalistico: Robert Capa.
Il romanzo, connotato storicamente nel momento più alto della lotta contro il nazifascismo, vuole farci respirare la lotta per la libertà attraverso non solo la figura di Gerda ma di tutti i personaggi che questa storia animano.
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Al lettore che si lascia attraversare dalla narrazione non viene consegnata un'eroina e neanche un personaggio epico nella lotta per la difesa della libertà, tutt'altro. Gerda, un'ebrea polacca, vive il suo opporsi a quella violenza dilagante in tutta Europa come un qualcosa di naturale, qualcosa che fa parte di lei. Il come farlo, attraverso una macchina fotografica è qualcosa che lentamente matura ma tutto con una disarmante naturalezza che cede il passo a qualsiasi ideologia politica e militanza.
Gerda non potrebbe essere altrimenti che Gerda. Sì, quella ragazza, figlia di commercianti, di una borghesia del tutto estranea a quella della cerchia dei suoi amici, quella ragazza che sprigiona sensualità e femminilità è la stessa che diventa soldato, che va al fronte perché questo fa parte di lei, del suo pragmatismo, del suo cadere e rialzarsi senza lasciare spazio a lacrime, consapevole che questa è la vita che vuole.
Un personaggio che esercita un continuo fascino sulle altre storie parallele di amici, amori che nel corso del romanzo s’intrecciano con quella della nostra fotoreporter.
Una figura essenziale priva di orpelli anche in quell'amore con il suo mentore e compagno di vita e di scatti qual è l'ungherese Capa. Una passione e un amore così forte di cui loro stessi non sono fino in fondo consapevoli.
Una prosa e una narrazione ben costruita che guarda alla stessa protagonista “mettendo a fuoco” attraverso tre diversi lenti. Tre persone che hanno incrociato la vita di Gerda. Queste tre diverse prospettive diventano altrettante storie parallele di libertà. Tutte storie di giovani con diversi sogni, diversi obiettivi uniti dalla difesa della libertà. George Kuritzkes, Ruth Cerf, Willy Chardack e ancora molti altri in diverso modo e per diverse strade in fuga dal nazismo.
La fotoreporter stroncata sul campo a soli ventisette anni, con al collo la sua piccola Leica, in questo suo essere osservatrice non si sente depositaria di una missione. Senza volerlo diventa un paradigma, una prassi contro le paure, i perbenismi e i pregiudizi. Tutti gli altri amici, una generazione di giovani lottatori nella maggior parte dei casi, solo in fuga in altri, così anche lo stesso Capa sono per così dire messi in crisi, oscurati, dalla semplicità di Gerta Pohorylle.
Ma il nostro personaggio non giudica così come fa la nostra autrice che nel suo narrare procede senza esitazioni tra presente e passato, un viaggio nella memoria di chi in questa donna si è imbattuto.
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Helena Janeczek vuole riconsegnarci il coraggio, la passione per la vita e per un lavoro scoperto e amato, una forza che forse i suoi stessi amici non conoscevano fino in fondo.
Un entusiasmo che non ha avuto il tempo di conoscere, neanche per un momento, la disillusione.
Queste le parole di Ruth, amica e collaboratrice in quell'atelier fotografico aperto con Capa a Parigi: “Io sarei scappata, o avrei pianto e vomitato anche l'anima. Lei invece scattava, scattava tre volte, poi cambiava cadavere... Il buon soldato Gerda non ne dubito. Ma non capisco, no”. “Che cosa Ruth?” chiede il marito. “Non capisco cosa sentiva. Paura poca, d'accordo… E poi?”.
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