Georges Simenon e “La mano”, grande scrittore o narratore di mestiere?
Non so quanti siano i lettori che considerano Georges Simenon un grande scrittore, e quanti invece lo considerino un bravo scrittore che di grande ha il mestiere. Io sono tra quest'ultimi.
Gli estimatori tradizionali dello scrittore belga rimarranno delusi da questo romanzo pubblicato da Adelphi: La mano (traduzione di Simona Mambrini). L’autore cerca di uscire dalle sue trame e imbastisce una storia povera sia di spunti narrativi sia di colpi di scena. É stato definito un romanzo psicanalitico, una riflessione sul sé esulle conseguenze delle proprie azioni. Simenon imposta un romanzo sul combattuto rimorso di un uomo che crede di aver lasciato morire il suo migliore amico non soccorrendolo nel corso di una tempesta. In un continuo confronto tra realtà e subbuglio mentale, la sua vita va avanti e lui arriva a portarsi a letto la moglie dell’amico morto, confrontandosi col silenzio giudicante della moglie. Come sempre Simenon mantiene il ritmo di cui è maestro, ma il solo ritmo non basta. L’impostazione generale è fiacca e il tono troppo serioso.
Innanzitutto l'ambientazione americana, non consuetudinaria in Simenon, costretto a ricorrere agli stereotipi che attenuano la credibilità della storia narrata. Le introspezioni di un uomo giunto alla soglia dei cinquant'anni, membro della società del benessere (in cui i mariti sono professionisti affermati e le mogli oggetto del desidero da parte degli amici dei mariti) suonano tanto di omologazione narrativa che non offre sorprese. Buono il tema della colpa e della frustrazione che denuda con improvvisa lacerazione l'età di mezzo; meno convincente è il tessuto causale che ruota attorno alla vicenda che non sviluppa profonde perlustrazioni. Tutto rimane in superficie, vagamente hollywoodiano, mancante della tensione necessaria, là dove invece nuoce una certa banalizzazione che deraglia la narrazione verso soluzioni non sufficientemente incisive. Non c'è rifrazione, il mistero di una moglie che sembra poter e voler controllare tutto e tutti suscita piattezza piuttosto che profondità.
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Il romanzo si snoda lungo i tormenti psichici del protagonista e della morte del suo migliore amico. I pochi personaggi non sono che proiezioni del suo tormento. Simenon non è un innovatore, adempie alla scrittura classica, abusando della convenzione; verrebbe da dire che egli è narratore e non scrittore, definizione provvisoria che serve qui a rimpiangere che egli non si addentri nei moti dell'animo umano con sufficiente sottigliezza analitica. Egli narra, a tratti lo fa bene, tralasciando di perlustrare le vicende narrate oltre i riconosciuti canoni di una letteratura tecnica che soddisfa il lettore medio. Abituato ai noir e ai suoi noti sviluppi e condizionamenti narrativi, sebbene non impieghi né Maigret né una vera trama “gialla”, la vicenda che narra è improntata alla dualità (ambiguità) della colpevolezza-innocente, o della innocenza-colpevole. Tema “difficile” che trattato da altri rinomati scrittori scuote e affascina il lettore, e che nel romanzo di Simenon non va oltre una scorrevolezza di superficie. Romanzo della mente, abbisognava di maggiore subbuglio psichico e motivazionale, invece il protagonista, nelle sue rivendicazioni di un vivere più intenso, sembra motivarsi nel desiderare un più esteso regime sessuale. Che questa donna, personaggio appiattito e subordinato alla preponderanza del protagonista, diventi presto la vedova dell'amico, non sembra costituire condizione accattivante ai fini della narrazione. Manca la tensione, la morbosità, l'eco esistenzialista dell'insoddisfazione dell'uomo contemporaneo.
Dove Simenon gioca bene le sue carte è all'inizio, quando tratta la morte come “incidente”, presunta più che accertata; ne deriva la compulsione e ossessione psichica di chi potrebbe, in potenza, sventarla. Cosa fa invece il mancato soccorritore? Si immobilizza seduto su una panchina, fumando una sigaretta dopo l'altra, spettatore della propria tormentata passività. Scatta il giogo che fa dell'uomo un colpevole-vittima di apparente ignavia. É un inizio ben centrato, la panchina e i mozziconi a terra di convulse sigarette, stimolano le aspettative del lettore che potrà trovarsi di fronte a una doppiezza esistenziale e comportamentale narrativamente intensa e ben orchestrata. E invece il romanzo si appiattisce nella banalità. L'antinomia di una vita desiderata e di una vita subita, sfociante in una tardiva coscienza di fallimento, non mantiene la tensione della ferita, della morte che chiama morte, quale quella morale di cui soffre il protagonista. La graduale discesa egli inferi è tematicamente conseguente, ma l'altra morte che alla fine concluderà il romanzo è troppo prevedibile come colpo di scena. Troppo sbrigativamente teatrale.
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A favore del potenziale pregio del romanzo vige un rapporto coniugale che si sdoppia in teatro delle ombre. Un marito, una moglie (ci sono anche due figlie) e in mezzo il silenzio, il taciuto ordito del sospetto e del rancore. Buona la raffigurazione di una moglie che capisce, giudica e condanna con il solo strumento dello sguardo, ma anche in questo caso non sufficientemente penetrato. Insomma: un romanzo dalle eccellenti intenzioni, da parziali riuscite, ma ampiamente imperfetto.
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