Generazione 1000 euro dieci anni dopo. È cambiato qualcosa?
Sono passati dieci anni dalla prima pubblicazione di Generazione 1000 euro, il primo tentativo di raccontare la precarietà dei trentenni di allora in un romanzo a firma di Antonio Incorvaia e Alessandro Rimassa, poi divenuto un film per la regia di Massimo Venier e con Carolina Crescentini, Francesco Mandelli, Alessandro Tiberi e Valentina Lodovini. Cos’è cambiato nel frattempo? La situazione è migliorata o peggiorata?
Ne abbiamo parlato con Antonio Incorvaia e Alessandro Rimassa, da poco tornati in libreria con Generazione 1000 euro REMIX (edito da Feltrinelli nella collana ZoomWide). Protagonista della storia questa volta è Claudio, social media manager alle prese con le difficoltà di un lavoro scarsamente riconosciuto sul piano sociale, con la quasi impossibilità di essere regolarmente pagato dal suo datore di lavoro e l’ansia che ne deriva.
La prima domanda è quasi d’obbligo: sono passati dieci anni dalla prima versione di Generazione 1000 euro. Cos’è cambiato nel frattempo? Possiamo provare a tirare le somme di questi dieci anni?
Antonio Incorvaia: Da un punto di vista sociale, le somme – dati alla mano – sono sicuramente in passivo: il mondo del lavoro si è frammentato in modo ormai parcellare; le istituzioni (scuole superiori e università) sono quasi completamente disallineate rispetto alle professioni più richieste sul mercato e continuano a replicare sterilmente programmi ministeriali che non hanno più sbocchi concreti; gli stage sono diventati uno standard occupazionale a qualsiasi età, livello, ruolo ed esperienza; e gli stipendi, in virtù di questo, si sono livellati ancora di più verso il basso e i proverbiali 1.000 euro di 10 anni fa, per molti, sono diventati un obiettivo.
Da un punto di vista mediatico, invece, dieci anni fa denunciavamo il fatto che non se ne fosse mai parlato prima; oggi denunciamo che in questi dieci anni se ne sia parlato e basta. Molto interesse sul problema, molti proclami politici, molta propaganda elettorale ma pochissime soluzioni reali. E un'attenzione morbosamente legata ai "casi umani" negativi e per nulla proiettata a esaltare quelli positivi di chi, nonostante tutto, in qualche modo "ce l'ha fatta" e sarebbe fondamentale capire come. Al di là di ogni luogo comune.
Cosa vuol dire avere trent’anni nel 2016? È più o meno difficile rispetto al 2005/2006?
Antonio Incorvaia: È senz'altro più semplice a livello relazionale: la condivisione del proprio vissuto personale, che dieci anni fa era relegata al massimo a qualche blog e una manciata di forum (molti, addirittura, ci scrivevano credendo di essere gli unici a subire le condizioni che raccontavamo nel libro originale), oggi è diventata parte integrante del modo di comunicare sui social e in chat, e questo fluidifica quantomeno la creazione di legami personali.
D'altra parte, allenta molto il grip su cui questi legami si saldano, e rende i trentenni paradossalmente più scoperti e distratti (o vulnerabili) rispetto a tematiche che non siano di intrattenimento puro. Le ideologie, di qualsiasi tipo esse siano, sono pressoché scomparse, come pure l'idea di costruire un terreno costruttivo e collettivo che non sia finalizzato solo allo scambio di selfie e video virali.
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Il libro inizia facendoci interagire immediatamente con l’ansia di Claudio. In che misura l’ansia è la caratteristica principale dei trentenni di oggi?
Alessandro Rimassa: L’ansia è una cifra narrativa utile a raccontare, nel profondo, una generazione che non è più anagrafica ma connessa da incertezze e difficoltà e che si alza ogni mattina con enormi complessità da smarcare. Non siamo preparati a un mondo che è sempre più complesso perché ci sono stati insegnati modi di ragionare e agire più semplici, e non invece la capacità di scomporre in parti semplici i problemi complessi: da qui arrivano stress e ansia, che in verità sono incolpevole impreparazione a una società differente da quella a cui chi ha vissuto il passato ci ha preparato. Ecco perché dobbiamo prima diventare consapevoli del cambiamento in cui viviamo, poi prepararci alle sfide quotidiane: così si combatte l’ansia, che c’è, e si costruisce il futuro, che è l’unico punto di arrivo.
Claudio deve gestire anche una delle più grandi difficoltà per i lavoratori atipici italiani: «Un giorno capirò perché su una multa o su una bolletta si applica la mora dopo un secondo che è scaduta, e sulle mie fatture nemmeno dopo un anno». Quanto e perché è così difficile farsi pagare in Italia?
Antonio Incorvaia: Perché il sistema consente alle aziende di agire in questo modo, e dunque perché non approfittarne? Se sono un imprenditore e so che, pur non pagando mai un collaboratore, nella peggiore delle ipotesi dovrà essere lui a impugnare le vie legali e a sobbarcarsi il peso di un ulteriore sforzo economico (straordinario rispetto a quello professionale già sostenuto) con tempi di risoluzione geologici, per quale motivo dovrei adottare un comportamento virtuoso che mi procura meno guadagno di quello virtuoso? Il problema, in Italia, è sempre e soltanto uno: che a non rispettare le regole si beneficia di molti più vantaggi di quanti non se ne abbiano rispettandole.
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Claudio si scontra anche con una realtà tipica di chi sviluppa la sua carriera in settori poco noti: «Dici “Social Media Manager” e ti ridono in faccia anche se hai appena sbancato Facebook con la gif di un gattino». Esiste un legame, secondo lei, tra la precarietà lavorativa e il mancato riconoscimento sociale di alcune professioni?
Alessandro Rimassa: Siamo un Paese conservatore e vittima di un conservatorismo miope, incapace cioè di spiegare a giovani e non giovani che oggi il mondo è diverso e che il mondo del lavoro lo è ancora di più. Siamo prigionieri di professioni vecchie e desuete, vittime di una disciplina assurda e fuori tempo massimo delle professioni stesse (quanto vogliamo far durare ancora gli anacronistici ordini professionali?!), impreparati ad accettare che l’innovazione determini la nascita di nuove professioni e percorsi formativi. La precarietà umana, e non solo lavorativa, è generata da questa incapacità sociale di accettare il cambiamento e di contribuire, tutti insieme, a costruire il futuro partendo dal presente.
Il mondo del lavoro, negli ultimi venti anni, ha richiesto un modo diverso di rapportarci al lavoro e alla carriera professionale. Quanto tutto questo ha inciso nelle nostre vite sul piano personale e sociale?
Antonio Incorvaia: Alivello personale non molto, in verità, ma probabilmente perché – già nel momento stesso in cui mi sono iscritto ad Architettura nel 1993 – sapevo che non sarei mai voluto diventare un Architetto, e per me il mondo del lavoro è sempre stato un organismo malleabile in cui dovevo trovare un ruolo e un'identità spuria (per non dire apocrifa) imparando a decifrare – o ad anticipare – dinamiche e scenari al di là di convenzioni e standard.
Capisco, però, che chi non è mai stato portato (o costretto) a ragionare in modo autonomo su questa liquidità del mercato, dove una professione nasce / esplode / sedimenta / sparisce / lascia il posto a un'altra in tempi talvolta brevissimi, debba fare i conti con un cambio di approccio e mentalità estremamente difficile, perché né la scuola né i media aiutano mai a entrare in quest'ottica di idee.
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In tutta questa precarietà c’è ancora spazio per il sorriso o, come dice qualcuno, siamo davvero la generazione triste?
Alessandro Rimassa: Siamo una generazione che si rimbocca le maniche, e siamo una generazione non più anagrafica ma sociale: siamo persone capaci di vedere oltre la nebbia e di sorridere a ciò che non ci cadrà addosso come un dono ma che sarà frutto delle nostre azioni. Ma siamo anche troppo individualisti, servono coesione e relazione, altrimenti il futuro che meritiamo non arriverà mai. Ecco, oggi sappiamo sorridere, ma dobbiamo anche guardarci negli occhi e sorridere assieme, altrimenti saranno solo sorrisi amari.
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