Garrone, Sorrentino, Mereu: visioni della crisi
Articolo pubblicato nella webzine Sul Romanzo n. 6/2013 Racconto della crisi.
La buona cinematografia dovrebbe essere capace, anzi dovrebbe sentire il dovere, potremmo azzardare, di “rappresentare la realtà”. Si badi bene: non stiamo perseguendo né un’apologia del cinéma vérité né, tanto meno, stigmatizzando il cinema di genere. Il punto è, invece, che ogni grande film che tale si possa definire, sia esso ascrivibile al realismo o al surrealismo, che si presenti narrativo o contemplativo, di produzione occidentale oppure orientale, di genere o meno, riesce a fermare un momento del tempo esteriore, naturale, e farsi riconoscere come prodotto di quel tempo, di quel momento.
È fuor di dubbio che si stia vivendo, nel nostro Paese, un momento storico (in realtà, una particella di quello che potrebbe essere un intervallo di tempo sensibile, a livello di “storia” narrata) di grande “crisi”: compressione economica, arrivo a coagulazione di contraddizioni decennali, contrapposizioni insanabili a livello politico e sociale, flessione del senso di responsabilità, decadenza morale ed etica, prima che culturale. E così, se è vero, come è vero, quanto si diceva poc’anzi a proposito delle buone pellicole cinematografiche, è anche pacifico, d’altro canto, e forse purtroppo, che il regno delle “immagini in movimento” non sfugge con facilità alla seduzione di raccontare il tempo presente, facendosi anzi irretire con voluttà. E con risultati che, francamente e a nostro profondo scorno, spesso, negli ultimi anni, si sono attestati in territori molto discutibili, che sono quelli della commedia qualunquista (ben lontana dalla dialettica stringente e dalle critiche, tanto ironiche quanto feroci, della commedia italiana “storica” o anche del buon Fantozzi, per intenderci), del drammone post-sessantottino, del pastiche pseudo-slapstick o, forse peggio ancora che negli altri casi, del “checcozalonismo” irriverente in apparenza, ma in fin dei conti profondamente riconducibile a innocua satira.
Tenute presenti, dunque, la voluttà del cinema italiano più recente nella rappresentazione, spesso oleografica, o agiografica, della contemporaneità, e certe angoscianti derive di semplificazione, viene allora quasi da sé un confronto fra tre produzioni recentissime, degli ultimi due anni, che poco sembrano avere in comune, ma che, allo stesso tempo, tanto sono passibili di accomunamento. Reality (Matteo Garrone, 2012), Bellas mariposas (Salvatore Mereu, 2012), La grande bellezza (Paolo Sorrentino, 2013) rappresentano tre esempi, quasi paradigmatici, di bel cinema.
Reality è, al pari de La grande bellezza, un racconto dell’apparenza: tuttavia, Luciano (Aniello Arena), il protagonista dell’opera di Garrone, è uno che vorrebbe diventare “visibile”, attraverso la partecipazione al Grande Fratello, mentre il più anziano e disilluso scrittore Jep Gambardella (Toni Servillo), protagonista del lungometraggio di Sorrentino e, nel film, autore di un fantomatico romanzo intitolato L’apparato umano, la visibilità l’ha conosciuta, se n’è innamorato quasi morbosamente e non è riuscito più a staccarsene. L’uno e l’altro hanno un problema nella dialettica tra ciò che sono, o sentono di essere, nel loro intimo, e ciò che vogliono, o devono, mettere in campo per essere riconosciuti e legittimati come diversi. Luciano e Jep, entrambi compresi nel loro tentativo di ascensione, anche se in punti diversi della “scalata”, hanno però un modo profondamente diverso di portare sulle spalle la loro croce: il primo, sorridente sotto un legno pesantissimo, propositivo, colmo dei suoi continui slanci vitalistici, genuino; l’altro, invece, annoiato, apodittico, aforimastico, ferocemente deduttivo nei suoi voli di memoria e di amore. Quali i temi trattati, dunque?
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L’inconsistenza della propria immagine, la sua costruzione, per procura, e sostanzialmente ad opera di altri a noi estranei ed esterni, l’insostenibile leggerezza dell’essere, se vogliamo, la pervasività della riproducibilità tecnica. E non sarà un caso, in questo senso, che entrambe le pellicole cominciano con una festa, sfarzosa, pacchiana, pseudo-elegante, in realtà talmente kitsch, in entrambi casi, da sfociare nel grottesco ed essere sublimata. E la festa, in fondo, con il suo carico ingente di sovversione carnevalesca e carnascialesca, è sia in Garrone che in Sorrentino, la migliore immagine del vuoto pneumatico che viene eretto a dogma, e nel mondo della “videocracy”, e in quello, stanco, annoiato, autoreferenziale, da Uroboro, dell’editoria, in cui il Gambardella sguazza pur tenendosene, con attenzione estrema e rigore quasi ascetico, alla larga. Questo complesso di temi viene sceneggiato, però, in maniera quasi diametralmente opposta: l’incedere di Reality è quasi tumultuoso, carnale, verace come il dialetto napoletano, mentre La grande bellezza si nutre di lunghe e sistematiche chiacchierate, piacevolmente infruttuose, e scorci di astrazione e invenzione poetica.
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